Aldous Harding è una Designer di nitide luci.
Designer è il terzo lavoro per la giovane autrice neozeolandese Hannah Harding, in arte Aldous Harding. Come nel disco precedente, Party, in veste di produttore c’è John Parish che suona anche in tutti i brani, ad eccezione dei due conclusivi.
Se Party portava con sé una certa cupezza di fondo, questo progetto sembra risalire verso una più nitida luce, mantenendo comunque la cifra stilistica dell’autrice, pervasiva ma sfuggente a significati certi.
Aldous Harding artista genuina
Pur senza percorrere vie davvero nuove (ma oggi rarissimamente qualcuno lo fa), Aldous Harding è artista “genuina” e il disco possiede linee compositive coerenti: presenti un manipolo di strumenti quali piano, mellotron, chitarra acustica, sfumature legnose di basso con poche calibrate congas e il raccontare del cantato. Ciò che colpisce sono i testi criptici ed il fraseggio della voce che ha una personalissima chiusura sulle parole, un suo sospingere il beat come se fosse inseguito, aggirato e sospinto nuovamente in avanti.
Il fascino dei testi di Designer
Dicevamo dei testi: notevoli proprio per l’impossibilità di certezze interpretative, slacciati su orizzonti forse intravisti e suscettibili di interpretazioni fuggevoli e magari illusorie. Sintetizzando potremo parlare di lirismo psichedelico, non per questo meno raffinato e incisivo. Scorrendo nell’ascolto il disco si asciuga traccia dopo traccia – i brani avanzano e man mano lasciano per strada suoni e strumenti sino a rimanere nudità di voce e piano nell’elegante epilogo conclusivo, Pilot.
Designer si apre con la godibilissima Picture Fixture (secondo singolo dell’album) per far posto alla title track, uno dei momenti più ritmati del disco; piacevoli le sospensioni tra le battute nella prima parte del brano e cantata con timbro flebile da adolescente. Stesso timbro lo ritroviamo alternato a registri vocali bassi in Zoo Eyes, suadente e permeata da morbosità complice il testo straniante, riassunto nell’interrogazione “che cosa diavolo ci faccio a Dubai” – in effetti il posto più distante dove possiamo immaginare Aldous Harding.
Arrivano poi la fascinosa Treasure e il primo singolo The Barrel (episodio trainante del progetto grazie anche ad un buffo video) dove la voce intrigante tiene il tempo con le parole usate da propulsore ritmico. Vanno poi citate Heaven In Empty e l’ autobiografica Damn, piano e voce carica di pathos su registro più profondo di vago sapore mitteleuropeo.
Designer fra raffinatezza ed eccesso di omogeneità
Di grande raffinatezza risultano l’equilibrio dell’insieme e l’uso di pochi strumenti in ogni brano, mai invadenti e persino valorizzati per sottrazione. Un lavoro quindi riuscito però sin troppo coerente; una coerenza che, paradossalmente, può diventare eccesso di omogeneità. Quella di Aldous Harding è una strada – scia diritta e luminosa – che a un certo punto fa desiderare la sterzata improvvisa che faccia un po’ di polvere, mentre ritorniamo comunque indietro per il nuovo ascolto.
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