Baustelle - Elvis

Baustelle – Elvis: un disco su cui c’è molto da dire, ma non proprio in positivo.

Elvis è il nono lavoro in studio dei toscani Baustelle. Francesco Bianconi ha dichiarato che Elvis “potrebbe essere un disco uscito nel 1973” e che quando pensa ad Elvis pensa anche “alla sua fase decadente, grassa, sudata, impasticcata”. Chi scrive ama molto il 1973, l’anno di Aladdin Sane, di Berlin e di Tanx, fra i tanti. E ama Elvis, anche, o forse soprattutto, nella sua fase decadente, grassa, sudata e impasticcata. Anche per questo, chi scrive, si sente di suggerire cautela negli accostamenti e nei paragoni, che per questo lavoro si stanno fin troppo sprecando.

Elvis il disco c’entra qualcosa con Elvis l’artista?

Elvis (BMG) è un disco che con l’Elvis degli anni Settanta, con i raggi profondi ed ineguagliati di quel tramonto, non c’entra nulla. E c’entra poco anche con il 1973, con Bowie, Lou Reed e i T. Rex, cioè con quell’universo pop-rock smaltato d’arte che fu il ‘glam’, e di cui oggi, smaltiti i lustrini e i trucchi, resta il solido tesoro di un tempo che si inceneriva mezzo secolo fa, in un lampo.

Certo, Elvis è educatamente glam nelle sonorità e negli arrangiamenti, se glam significa far suonare le chitarre come un Ciao truccato e laccato; superficialmente pop nella tessitura complessiva, astutamente commerciale, appena appena un po’ rock, lontanissimo dalle sbandierate assonanze black se non in qualche arrangiamento ben congegnato, Elvis dà il peggio di sé nei testi, che castigano in maniera irreparabile un prodotto musicale già fragile.

Passi per Marco, che, cintura nera, «Vorrebbe, andarsene su Marte, una ragazza, farsi fare un pompino», tutte ambizioni ben comprensibili, e collocate in giusta propensione ascendente (Andiamo ai Rave); passi per lui che un giorno scopre lei a letto con un altro, ma non ci rimane troppo male perché siamo tutti cani nel deserto (Contro il Mondo) e passi molto altro ancora.

A convincere poco è la scelta programmatica operata dai Baustelle per Elvis

La falla di Elvis, prima ancora che negli esiti, sta infatti nel manico, nelle premesse. Sta nella scelta, operata senza ingenuità ed anzi in maniera ben consapevole, di un linguaggio e di tematiche tritamente giovanilistiche. Non si sta qui a discutere se e quanto siano congrui con l’anagrafe di chi le propone, ma sono tanto evidentemente mediati e ‘di secondo livello’, tanto esplicitamente creati in laboratorio da sembrare la parodia di loro stessi, mimetici di modi, linguaggi e stili come un testo di Elio e le Storie Tese, ma senza nessuna ironia.

C’è molta premeditazione, non poca presunzione e tanta malcelata ambizione in Elvis. E sono carte che, come sempre succede, si svelano. Accade, questa volta, in Il Regno dei Cieli. Col cazzo che siamo davanti ad un gospel per voci bianche, come si legge da qualche parte; si tratta invece di un interminabile pastiche che rimette insieme il peggior De André (quello che anche De André detestava, quello di Spiritual, per capirci) e fra’ Giuseppe Cionfoli (né il peggiore né il migliore, Cionfoli e basta).

Una somiglianza…

Qualche spregiudicatezza di troppo, poi, ci sembra di cogliere in Milano È la Metafora dell’Amore (titolo che ho paura anche a pronunciare a voce alta). Ci pare di sentire molto da vicino (ma potremmo e vorremmo sbagliare) Undeground Underground degli ottimi pisani Strange Flowers. Sarà un comune spiritello Kinks che aleggia in entrambe, e anche un po’ in tutto Elvis, sarà l’orecchio che inganna, eppure l’impressione è forte*.

Non troverete in conclusione, in Elvis, né il 1973, né Elvis, né Bowie, né Lou Reed, né i T. Rex. Troverete semplicemente i Baustelle. Se li digerite, Elvis vi piacerà, perché sotto la sua pelle, sotto la sua patina brillante, non c’è, a dispetto di una rivoluzione sonora ostentata a mezzo stampa ma ben poco praticata, nulla di nuovo. Soltanto un po’ di lustrini qua e là, a fare addobbo e a fare atmosfera sonora di un tempo che fu.

*Ringraziamo Pietro Andrea Annicelli per la segnalazione.

Baustelle – Elvis
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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