Bob Dylan Fragments

Bob Dylan – Fragments: Time Out of Mind Sessions (1996-1997), come riscrivere la storia e non farla finire mai.

Time Out of Mind, 1997, è un album essenziale nell’errabonda, lunatica, geniale, contraddittoria e a volte sgangherata discografia dylaniana. Nel diciassettesimo volume della Bootleg Series, appena pubblicato, il disco è smontato, rimontato, guardato e riguardato da molteplici punti di vista. Soprattutto c’è un nuovo, eccellente remix che rimedia a quello che l’autore considerava il difetto d’origine. Un lavoro, cioè, che «somigliava tutto alle cose swampy e voodoo in cui Lanois è bravissimo» mentre invece «avrei voluto dargli più ritmo» (Rolling Stone, 2001).

Un uomo a pezzi

Il Bob Dylan di allora, fiacco e in crisi creativa, emergeva dai testi come un uomo a pezzi: non poteva quindi che chiamarsi Fragments, sottotitolo Time Out of Mind Sessions (1996-1997), la raccolta di cinque dischi che documenta come egli sia riuscito a realizzare, inaspettatamente, il suo disco forse più bello da Blood on the Tracks, 1975.

Importante fu la produzione di Daniel Lanois che otto anni prima aveva fatto altrettanto per il notevole Oh Mercy. Ma l’autore, da rocker, folksinger e bluesman qual è, predilige le sonorità asciutte. La nuova versione può stare all’originale come le iniziali, bellissime registrazioni scarne di New York (pubblicate ufficialmente nel quattordicesimo volume della Bootleg Series) stanno all’edizione definitiva di Blood, per restare al paragone precedente.

Affidato a Michael Brauer, ingegnere del suono che da vent’anni lavora al catalogo di Dylan, il remix restituisce naturalezza e spigolosità elettrica all’inquietudine esistenziale e a un’epica evocativa degli spazi, talvolta quasi western, in cui ci sarebbe stata a pennello, come in Slow train coming e in Infidels, la narrazione chitarristica di Mark Knopfler. Ne guadagna la voce, emozionante nelle sue asperità, e il suono d’insieme che diventa, classicamente, senza tempo.

La fine del rock come cosa per giovani

Lanois ha scritto nella sua autobiografia che l’allora cinquantaseienne Dylan, in quei giorni ammalato di pericardite temendo, parole sue, «che presto avrei incontrato Elvis», distrusse in Time Out of Mind il mito del rock come cosa per giovani. Si prendano l’elegiaca Not Dark Yet («Non è ancora buio /ma sta arrivando») o Trying to Get to Heaven («Ho camminato in mezzo al nulla /cercando di giungere in Paradiso prima che chiudessero la porta»): sono riflessioni poetiche sul limite della vita. Sua Bobbità, rispetto a tanti colleghi degli anni Sessanta, da allora è invecchiato continuando ad avere qualcosa da dire o, nel peggiore dei casi, dandone l’impressione, riuscendo a mantenere il proposito dichiarato dopo aver realizzato un lavoro tanto intenso quanto stordente: «Non c’è nulla di sprecato o di superfluo in Time Out of Mind e non penso nemmeno che ci sarà in nessuno dei miei dischi futuri» (Guitar World, 1999).

Dyan Fragments

Ci vorranno altri ventidue anni e mezzo, gli stessi che all’epoca separavano da, ancora, Blood on the Tracks, per poter ascoltare un album altrettanto indimenticabile: Rough and Rowdy Ways, sua ultima fatica (per ora). Nel mezzo solo quattro validi dischi di canzoni originali (Love and Theft, Modern Times, Together through Life, Tempest), sebbene Dylan, fin dai primi anni Novanta, abbia integrato e alternato la fatica del comporre e l’ispirazione discontinua con pubblicazioni, quasi sempre di valore, prima di tradizionali canti folk e blues, poi rinverdendo il canzoniere di Tin Pan Alley. Non è mancata un’incursione, discutibile, nei canti tradizionali natalizi. Ma a intrigare è stata e continua a essere l’acribiosa e rivelatrice Bootleg Series, cioè la copiosa pubblicazione ufficiale di prezioso materiale, generalmente inedito, proveniente da un tempo in cui, secondo lui, i dischi «avevano tutti un po’ di magia perché la tecnologia non andava oltre ciò che l’artista stava facendo» (Guitar World, 1999).

The Bootleg Series

I bootleg, nell’accezione musicale i dischi con registrazioni non ufficiali e dal vivo, se non scarti sottratti clandestinamente alle case discografiche, nascono con Bob Dylan e con lui, imprevedibilmente, s’istituzionalizzano. Il primo fu storicamente, nel 1969, l’album Great White Wonder con canzoni del primo Dylan. Ventidue anni dopo la Cbs pubblica The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991: è l’inizio d’una collezione appassionante, vagabonda e umorale come il suo autore, che renderà superfluo andarsi a procurare sul mercato parallelo, spesso a costi esorbitanti, registrazioni quasi sempre di qualità e di fattura mediocre se paragonate ai tesori d’archivio.

Da straordinaria vacca da mungere negli anni Settanta e Ottanta, Dylan si trasforma così nello spauracchio della contraffazione. Emblematico in tal senso è il video di Dreamin’ of You, una delle quattro canzoni scartate da Time Out of Mind e recuperate in pubblicazioni successive, con un vecchio ed esausto Harry Dean Stanton (1926-2017) nelle vesti d’un bootlegger che insegue l’inafferrabile Dylan in giro per l’America.

Il fantasma di Buddy Holly

Il valore della Bootleg Series non è però soltanto documentaristico o feticistico. Il materiale alternativo rappresenta infatti, per orecchie attente, un’opportunità ineguagliabile di capire e ricostruire il processo creativo dell’artista. In questo senso Fragments appaga con un’ampia selezione di demo e di versioni embrionali delle canzoni, oltre che dal vivo, spesso con dei testi diversi; è chiaro, ad esempio, perché Bob Dylan abbia deciso di escludere una canzone del valore di Mississippi, poi interpretata da Sheryl Crow, prima di recuperarla nel successivo album Love and Theft.

Se poi si è abbastanza sensibili da intercettare la psiche di Dylan e di connettere il suo immaginario sentimentale messo in musica con il remix di Michael Brauer, s’intuisce che cosa volesse dire quando nel 1998, nel suo discorso in occasione dei Grammy Awards, a proposito di Time Out of Mind affermò: «Avevo sedici o diciassette anni e andai a vedere Buddy Holly suonare (…). Ero proprio sotto il palco… e lui guardò verso me. Ho avuto la sensazione che lui, non so come o perché, fosse lì con noi quando registrammo il disco».

Bob Dylan - Fragments: Time Out of Mind Sessions (1996-1997)
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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