Recensione: Dear Life – Brendan BensonThird Man Records – 2020

Esce il nuovo Brendan Benson – Dear Life: ritorno sulla sua carriera.

Chitarrista dotato, songwriter delicato ed intenso, Brendan Benson con One Mississippi (1996) spara subito un proiettile d’argento. La critica lo acclama, il pubblico lo ignora, la Virgin lo licenzia. E sbaglia: One Mississippi è un concentrato di originalità ritmica e di fresche idee melodiche, power pop raffinato ed effervescente, appeso da qualche parte fra i Kinks e i Beatles di rito maccartneiano, ibridato con echi grunge e con umori paisley underground (con i Cars e i Black Star dietro l’angolo).

Recensione: Dear Life – Brendan Benson
Third Man Records – 2020

Benson getta i dadi una seconda volta con Lapalco (2002) ed è la benedizione commerciale. Mezze tinte autunnali ed atmosfere morbide compongono un songwriting elegante, il paradigma beatlesiano si impreziosisce della malinconia pastello di Harry Nilsson e dell’ovattata, stralunata morbidezza dei Byrds. Il pregevole The Alternative of Love (2005) sarà interamente irrorato da un perlaceo jingle jangle con cui Benson rende raffinato omaggio ai grandi californiani.

L’incontro con Jack White

Corre l’anno 2002 e Benson incrocia la stella di Jack White. Col gran genio del suo amico inventa i Raconteurs e si fa sul serio: Broken Boy Soldiers (2006), ruvido, acido e sghembo, ma ancor più il superbo garage dalle mille inflorescenze southern e roots Consolers of the Lonely (2008) sono fra i frutti più succosi del primo decennio degli anni Duemila (Carolina drama toccherebbe il rude cuore anche di quei ceffi dei Lynyrd Skynyrd). Si penserebbe che da cotanta esperienza gli spiriti musicali del nostro escano rinvigoriti, e invece no: My Personal, Old Friend (2009), omaggio ai Kinks, ai Beatles e agli anni del beat, vede annaspare le già poche idee sotto una produzione fracassona, con archi sintetici e sintetizzatori buttati lì un po’ a casaccio.

Si inizia a sospettare che la vena di Benson sia stata già tutta scavata, ma non è così e c’è ancora il tempo di farci sperar di meglio: con il solido e brillante What Kind of World (2013) in cui brilla la splendida On The Fence, con il dignitoso ed elegante You Were Right, soffuso di armonie drakiane, e con l’energico ritorno rock dei Raconteurs, Help Us Stranger (2019).

Dear Life: si rimpiange il vecchio Brendan Benson

Siamo alla cronaca dell’oggi. Sconsolata cronaca duole dire, perché se con My Personal, Old Friend non si rideva, con Dear Life si piange addirittura. Altisonante nelle sonorità, vacuo come un disco dei Toto, invariabilmente monotono e radiofonico, Dear life ha da offrire soltanto melodie e ritornelli mille volte sentiti su una qualsiasi stazione mainstream. La title track fa dispetto agli America tanto è ammiccante e ruffiana. La dolciastra Baby’s Eyes fa rimpiangere Al Stewart, che almeno di carinerie fu maestro. Va anche peggio con i campionamenti vocali e le drum machine (pare siano la sua nuova passione) di Good to Be Alive e di Who’s Gonna Leave You.

 

Appena un po’ meglio con la quaterna Evil Eyes, Freak Out, I’m in Love e (Half a Boy) Half a Man, combinato di grunge slavato e finanche di hard rock che però al più riesce ad evocare Peter Frampton (I Quit fa cinquina, ma con il fiato troppo corto).  Si fatica a trovare un appiglio: si pensa a Richest Man che, nonostante il turgore di fiati e arrangiamenti, ammicca divertita al blue eyed soul, ma subito ci si pente dell’eccesso di fiducia. Le tracce del morbido e brioso songwriter del tempo andato paiono perdute, ma Benson canta di essere molto meno ricco e assai più felice di ieri e non sembra darsene troppa pena. Noi siamo felici per lui e ci daremo pace: alla fine Emma J, House in Virginia e Me Just Purely sono canzoni che non si dimenticano.

Brendan Benson – Dear Life
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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