Il nigeriano Burna Boy sulla strada del successo con African Giant.

Il quarto disco di Burna Boy, African Giant, sembra essere destinato a proiettarlo verso il successo definitivo. La progressione del nigeriano, nato Damini Ebunoluwa Ogulu è stata in realtà sicura e relativamente rapida. I due primi dischi lo hanno fatto conoscere e nel 2017 ha firmato per una major (la Universal negli USA, la Warner in Europa) e pubblicato Outside. Da allora diverse partecipazioni internazionali lo hanno messo in luce. Notavamo come la compilation assemblata da Beyoncé per il nuovo The Lion King e molto orientata verso l’Africa trovasse proprio in Burna Boy uno fra gli ospiti più interessanti. Poco prima la sua partecipazione al sobrio disco d’esordio di Dave dava un po’ di toni solari a Location.
Gli ospiti di African Giant
Con African Giant abbiamo il risultato migliore raggiunto finora da Burna Boy. Ci sono gli ospiti americani (Future, YG, Jeremih), inglesi (Jorja Smith), giamaicani (Damian Marley, Serani), ovviamente africani (M.anifest, Zlatan, ma soprattutto Angélique Kidjo). C’è una visione che spazia a 360°, perché nell’afro-pop di Burna Boy si trovano influenze che potrebbero venire dal mondo latino-americano così come dall’ambito hip-hop occidentale.
Burna Boy e il debito con l’Afrobeat
Il tutto viene però rielaborato con grande classe e con uno stile suo proprio. African Giant contiene momenti notevolissimi: Anybody (che riprende in parte We We di Angélique Kidjo con straordinaria efficacia), Collateral Damage, Dangote, Gbona tanto per citarne alcuni. Gli omaggi all’Afrobeat di Fela Kuti si sprecano. Burna Boy non ha mai nascosto il suo grande amore per l’artista-pilastro della scena nigeriana (e molto oltre) degli anni ’70 e ’80; peraltro il nonno di Burna, Benson Idonije, è stato fra i manager di Fela Kuti.
Ovviamente, i decenni sono trascorsi da quei momenti: Burna Boy con African Giant si rivolge a un pubblico che ama l’hip-hop e i suoni caraibici, e anche questo si sente. Se un difetto si può trovare al disco è la lunghezza. Con diciannove canzoni e un’ora di musica ci sono riempitivi accanto a momenti eccellenti. Però quando trascina, il Burna Boy di African Giant lo fa come pochi altri e alla fine è ciò che conta di più.
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