Fleet Foxes – Crack-Up

Li avevamo un po’ persi di vista, i Fleet Foxes, il gruppo guidato da Robin Pecknold dall’ampio organico e dalle barbe lunghe stile boscaioli. Nell’ultimo decennio avevano inciso due dischi importanti. Il sorprendente debutto omonimo era del 2008, seguito nel 2011 dal più che convincente Helplessness Blues. Le atmosfere bucoliche, il raffinato uso delle voci e gli arrangiamenti complessi, anche se un po’ pretenziosi, ne avevano decretato rapidamente il successo.
Dopo sei anni di silenzio tornano i Fleet Foxes
Tuttavia, dopo un lungo tour terminato nel 2012, la band si è un po’ cristallizzata. Qualcuno ha persino lasciato, come il batterista Josh Tillman, che ora fa il solista quasi famoso sotto l’alias di Father John Misty.
Crack-Up è quindi un ritorno molto atteso, che ripaga i fans più impazienti, ma è solo parzialmente riuscito. L’effetto novità, dopo sei lunghi anni, è scemato e qualche segno di stanchezza si avverte, anche se ci sono, come sempre, i caratteristici brani strutturati come vere e proprie mini-suite di sette/nove minuti. In più, nonostante il dizionario degli strumenti impiegati sia sempre più robusto (il qraqeb per esempio, che cos’è?) gli arrangiamenti sembrano meno ricchi e originali.
Peccato che Crack-Up non convinca del tutto
Le canzoni portano comunque il marchio di fabbrica Fleet Foxes creando un rassicurante effetto déjà vu. Inoltre, qualche idea, come i fiati sordinati della title track, è veramente di buon gusto. Tutto questo non mette al riparo dai momenti di noia che si affacciano qui e là, camuffati tra le squillanti armonie vocali, i testi con riferimenti letterari esoterici e titoli esotici, multipli o impronunciabili.
Diciamo che Crack-Up (‘cedimento, crollo, anche nervoso’ dice il dizionario) mostra qualche crepa evidente. Crepa magari comprensibile nell’ambito di un terzo album che si configura come una ripartenza. Comunque, diceva Leonard Cohen, è dalle crepe che passa la luce, e qui ne arriva ancora parecchia da schiarire le ombre.
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