Francesco Guccini - Canzoni da Intorto

No, Francesco Guccini non si ritira, anzi si ripresenta con le sue Canzoni da Intorto preferite

Sbaglieremmo a giudicare Canzoni da Intorto, il ritorno di Francesco Guccini alla canzone e alle canzoni d’altri e d’altri tempi, solo per quello che, almeno in parte, indiscutibilmente è:  una furba operazione di musica solida, condotta con sicuro fiuto commerciale, per la quale si prepara già il bis.

Sbaglieremmo, crediamo, anche a trovarvi soltanto il canto opaco e sfiatato di un più che ottantenne autore che fu grande fra i grandi e che aspetta di passare al nero.

Sbaglieremmo – almeno, chi scrive ne è convinto – anche se volessimo intendere questa raccolta di canti popolari e canzoni di un’Italia lontana e persa nel tempo, come il risultato a freddo dell’accoppiamento delle due dorsali, quella ‘politica’ – assai limitata quantitativamente e qualitativamente sopravvalutata – e quella intima ed ‘esistenziale’, che da sempre convivono nella poetica di Guccini.

Francesco Guccini – Canzoni da Intorno: un canto funebre per una gioventù e un’Italia ormai lontane

Contando su siffatte premesse Canzoni da Intorto (BMG) ci parrà allora piuttosto un modulato canto funebre, intonato in sordina, in affettuosa memoria di una gioventù che si è intrecciata alla storia di un’Italia umile e popolare, piccolo borghese più che operaia, bolognese, colta e universitaria più che impiegatizia.

Un’Italia ‘intortata’ di discussioni, caroselli ed eroi, della quale più nulla resta, se non frammenti di musiche e parole che risuonavano allora fra chitarre e risate, oggi scorie sparse di una avventura individuale sempre più difficile da connettere alla storia comune di una generazione che fu e si scoprì giovane all’alba dei Sessanta.

Se proviamo a leggere così Canzoni da Intorto, come lo stesso Guccini sembra volerci suggerire nelle note fini e divertenti che introducono all’ascolto, non stupirà più che il quotidiano si sieda  accanto all’epica, il dialetto si intrecci alla lingua e alle lingue, l’epica si alterni alla lirica e ai gloriosi “Dischi del Sole”, fattisi nel frattempo reperti preziosi d’archivio.

Cosa prendere e cosa lasciare in Canzoni da Intorto

Quasi tutto si tiene in Canzoni da Intorto, e tutto ha lo stesso sentore di appannato e affettuoso canto d’osteria spopolata all’alba, quando la voce non sostiene più il cuore dei musici e gli stracci cominciano a scivolare sui tavoli sporchi e bagnati. Ma che tutto si tenga non significa che tutto sia perfetto o che tutto torni.

Chi scrive continua, infatti, a trovare goffa e malriuscita, nonostante i numerosi ascolti autoimposti, la balcanizzazione danzante di Per i Morti di Reggio Emilia, che disperde in una balbuzie cantilenante e ripetitiva la potenza drammatica e retorica, da vera orazione funebre ottocentesca, della canzone che il torinese Fausto Amodei scrisse nel 1960 a seguito dei fatti che insanguinarono la fin troppo lunga vita del governo Tambroni.

E chi scrive pensa anche, e se ne assume la colpa, che la scelta di inserire come ghost track Sluha Naroda, tema della serie Servitore del Popolo, interpretata dal presidente-attore ucraino Volodymyr Zelenski, sia una caduta di stile piuttosto imbarazzante, resa ancor peggiore dal gioco del vedo non vedo, non vedo ma ascolto.

Ma dal midollo di quell’Italia umile e lontana, pronta a godere di piccole gioie e piangere di piccoli drammi, sospesa fra camere colpevoli e ammobiliate, partite di pallone domenicali, e pomeriggi sull’erba a rubare amplessi scomodi e scontenti, Guccini sa trarre ancora succhi di poesia. E un fuoco di trattenuta nostalgia per quel mondo imperfetto e perduto torna a vibrare nelle bellissime Le nostre domande e Quella cosa in Lombardia, già cantate da Margot e da Jannacci, e che rimandano a quel tempo, che pure c’è stato, in cui poeti grandi come Franco Fortini meditavano su Lukács e scrivevano canzoni su amori furtivi nell’erba gelata con la Lambretta lì accanto abbandonata.

Addio A Lugano e Nel Fosco Fin del Secolo, con le quali risponde all’appello immancabile la vena anarcoide di Guccini, ci pare invece non diano quanto potrebbero ed era lecito attendersi, un po’ sospese come restano fra il quadretto di genere e la marcetta polverosa, senza rendere troppo onore a Pietro Gori e Luigi Molinari, ottocenteschi, rivoltosi nonni della Locomotiva.

Se vibra Guccini di ottime e teatrali vibrazioni nella bella e cattiva El Me Gatt, del mai troppo ricordato Ivan della Mea, e nell’indimenticabile falsa canzone popolare Ma Mi (parole di Giorgio Strehler e musica di Fiorenzo Carpi), poco aggiunge Green Sleeves, se non per il gustoso motivo del suo inserimento nella raccolta che ne dà il cantante nelle note introduttive. Né troppo di più aggiungono Tera e Aqua, canto di dolore e fatica ispirato alla tragedia del Polesine già reso indimenticabile da Giovanna Marini, e Barun Litrun, canzone popolare di solida tradizione piemontese pescata nelle leggendarie compilazioni del Nigra. Entrambe portate a casa con decoro,  senza applausi.

Qualche passaggio incerto e poi il gran finale

Ma è con la finale Sei Minuti All’Alba, scritta da Jannacci per il padre partigiano, che si tocca il vertice del disco: intensa, partecipata evocazione di un piccolo maestro che con umiltà e parca scelta di gesti e parole offre la vita ad un Paese che pare oggi non meno favoloso e mitico di quell’isola non trovata che resta, oggi come allora, fra le più belle invenzioni di Francesco Guccini.

Francesco Guccini - Canzoni da Intorto
6,5 Voto Redattore
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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