Starcatcher è il terzo album dei metallari-spirituali Greta Van Fleet.
“But the little girls understand” dichiaravano decenni fa i (gli?) Knack. Aggiungendo all’assioma i “little boys” (che della fanbase del gruppo di Frankenmuth, Michigan, costituiscono l’ossatura) si ottiene la ragion d’essere dei Greta Van Fleet. Ovvero: “sappiamo che i cinquantenni ci considerano scopiazzatori dei Led Zeppelin e dei Guns N’ Roses, ma intanto esistiamo già da un po’ e fra i ragazzi siamo parecchio popolari perché diamo spettacolo e salviamo il rock”. Giusto per fare riferimento a qualcosa di familiare per noi italiani, è un discorso affine a quello applicabile ai Måneskin. Anche per il gruppo romano si parla di citazionismo classic rock (incluso salvataggio di quella musica) e di gusto per la scena. Con la differenza che il cantante dei GVF, Josh Kiszka, ha un’aria da glam-rocker della porta accanto che lo rende più umano di Damiano David.
Un nuovo produttore per i Greta Van Fleet
Starcatcher non cambia granché rispetto all’esordio dei Greta Van Fleet con Anthem Of The Peaceful Army e al successivo The Battle At Garden’s Gate. La novità principale è rappresentata dall’ingresso di un nuovo produttore, il quotato Dave Cobb, convocato per rendere più nitidi i suoni. Forse ci è riuscito, ma non è che si senta troppo. L’approccio resta sempre basato su un metal epico, robusto, ricco di chitarre (affidate al gemello di Josh, Jake) e attento alla melodia, pur senza farlo notare troppo. Insomma nulla di frenetico o davvero rumoroso, anzi, se c’è un elemento caratterizzante può essere quello della spiritualità.
Lo dimostra uno dei pezzi chiave della raccolta, Meeting The Master, che inizia in chiave acustica e poi esplicita il tema religioso in un crescendo cosmic-roboante con coro e orchestra. Quanto al video, pare un concentrato – tanto per rimanere in ambito Led Zep – di The Song Remains The Same. E non è un complimento.
Il resto dell’album offre comunque cose migliori come The Archer, con begli incroci di chitarre acustiche ed elettriche, The Falling Sky, percorsa da un’armonica da ampi paesaggi e The Indigo Streak, epica come certe cose da radio FM anni ’80 con buona frase melodica centrale e tocchi southern rock.
E così, ancora una volta, i Greta Van Fleet si guadagnano la sufficienza. Forse perché, al contrario di un gruppo loro contemporaneo citato nella recensione, sono sopra le righe eppure ‘de noantri’.
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