Resta ancora molto, di quegli anni ottanta: John Mayer – Sob Rock
D’altra parte lo ha sempre confessato, senza nascondersi dietro fumose cortine di autenticità: i suoi modelli sono da rintracciare nella mano lenta di Eric Clapton alla chitarra e nell’elegante songwriting di James Taylor, uno che bazzicò negli studi Apple quando i four erano ancora fab e credevano di plasmare la musica del futuro dando una possibilità ai talentuosi senza macchia, senza paura e (soprattutto) senza quattrini.
Il suono del pop-rock anni ottanta, quello della seconda metà in particolare, lo ha sempre adorato. Quando in modulazione di frequenza passava quel sound contraddistinto da uno strano acronimo, AOR, lui era appena un teenager ma se lo ricorda bene. Adult Oriented Rock: sarebbe da scriverci un’enciclopedia, ma lo hanno già fatto, ovviamente senza pretese di esaustività. Nostalgia? Certo, ma è anche un po’ la nostra, probabilmente non solo per questioni anagrafiche.
Il vintage (ri)veste la copertina
In fondo, basta dare un’occhiata alla grafica di copertina, dal lettering all’immagine, che ritrae John Mayer con la Stratocaster “personalizzata” e uno sfondo che non lascia alcun dubbio sul “possibile” decennio di reminiscenza. L’aria un po’ malinconica di Mayer cristallizza il significato del titolo, Sob Rock, che richiama da una parte il Soft Rock in voga durante quegli anni e dall’altra la tristezza, sì, quella che traspare dai testi di alcune canzoni che fanno capolino sotto un tessuto sonoro fresco, pulito ma decisamente vintage. Si diverte, Mayer, fornendo l’ennesima prova della sua versatilità, della sua capacità di transitare, senza soluzione di continuità, dal blues rivestito di pop di Continuum – l’album della deflagrazione, 2006 – al country e al folk del bellissimo Paradise Alley (2013), senza mai dimenticare l’antica lezione del compianto Tom Petty: troppo facile fare musica per due persone, difficilissimo piacere a tanti mantenendo la qualità della proposta. Mayer ci riesce con estrema naturalezza, attingendo ai maestri di quel sound che ha colorato i sogni della sua infanzia. Produce, insieme allo stesso Mayer, Don Was, certificato di origine controllata e garantita.
L’ultimo treno verso casa, antipasto di John Mayer – Sob Rock
Last Train Home è un antipasto corposo di scintille elettriche e tastiere, una canzone che in altri tempi sarebbe forse diventata “tormentone”; Shouldn’t Matter But It Does un ballatone da timidi abbracci in discoteca (accadeva negli anni ottanta, appunto), mentre New Light fa leva su una sezione ritmica potente e un suono magistrale. Bella Why You No Love Me, che richiama i Beatles declinati secondo il vangelo harrisoniano, con un po’ di Jeff Lynne nelle corde e la chitarra che, in effetti, “gently weeps”.
Wild Blue sembra uscita da Communiqué, oppure da un disco solista di Mark Knopfler, Shot In The Dark richiama Bruce Hornsby (al suo meglio, però), I Guess I Just Feel Like torna alle atmosfere di Paradise Alley, con Mayer che canta in modo assai convincente. Menzione a parte per Til The Right One Comes, che si divide tra Chris Rea e tanto mestiere tipicamente heartland: sembra già sentita mille volte, ma la riascolteremmo mille altre volte ancora. Chiudono Carry Me Away, refrain semplice e assassino, e All I Want Is To Be With You, lentaccio da strade deserte, polvere e lacrime. C’è un po’ di Springsteen – quello di Atlantic City –, un po’ di Warren Zevon ultima versione, tanto per chiudere un cerchio perfetto di influenze. Un album totalmente derivativo, direte voi. Sì, totalmente. Ma che si ascolta con immenso piacere, perché Mayer ci mette il suo mestiere, e il suo mestiere lo sa fare bene. Suono perfetto, musicisti di prim’ordine, dal percussionista Lenny Castro (Toto) al tastierista Greg Phillinganes (Stevie Wonder, Eric Clapton, Michael Jackson). Estivo, solare, senza pretese. Ma quando finisce quasi dispiace.
Be the first to leave a review.