Karen Elson – Double Roses.
Per chi abbia avuto la possibilità di ascoltare il precedente album di Karen Elson (supermodel e musicista inglese), questo Double Roses si proporrà come un deciso cambio di passo o, meglio, un morbido scivolare in atmosfere rarefatte, ornate da flauti, arpe, aeree chitarre slide a confezionare un lavoro etereo, onesto e piacevolmente pop (in questo senso paragonabile alle cose di Lana Del Rey).
Abbandonate sono le precedenti composizioni a metà tra murder ballads e mood blues del primo lavoro, eloquente già dal titolo, The Ghost Who Walks. Là produceva l’ex consorte Jack White, qui Jonathan Wilson, recente collaboratore di Father John Misty. Quest’ultimo compare in Double Roses insieme a Laura Marling, Pat Carney dei Black Keys e Pat Sansone dei Wilco (non proprio bruscolini).
Karen Elson: supermodella con anima
Double Roses ci racconta con toni intimistici vicende private, solitudini e separazioni. La voce di Elson offre la dovuta partecipazione, se non fosse per una pervadente setosità che finisce per soffocare una buona parte dei brani.
Il disco si apre con Wonderblind e l’amara consapevolezza della caducità delle vicende amorose, interpretata con suadente partecipazione. “Il tempo non è dalla nostra parte… Perdersi quando sei perduto già”. Si farebbe volentieri a meno del flauto, ma il brano è bello grazie anche a un efficace hammond verso la fine.
Più articolata e mossa la title-track: linea di basso compatta e cori vocali stranianti. Poi arriva quello che pare rappresentare l’hit del disco, Call Your Name, una bella ballata chitarristica: ritornello decisamente compatto e strumenti affiatati e sostanziosi. Si tratta di un momento davvero convincente e lo stesso vale per la bellissima e vagamente morbosa Raven, dall’orchestrazione sapiente. Particolare Why Am I Waiting For, dall’intro che pare un campionamento secco di San Jacinto del Peter Gabriel che abbiamo molto amato prima della dispersione global-tribal-world music.
Alcuni episodi risultano meno convincenti nel loro stile Nashville (dove la nostra risiede da anni), vedi Millions Of Stars, molto melliflua. Wolf è una ballata intensa e dolente a cui manca qualcosa. Ancora una volta, il problema è la vocalità poco incisiva, probabilmente non disponibile alla cifra della nostra.
Un bel disco Double Roses, ma meglio evitare paragoni fuori luogo
Double Roses scorre gradevole e senza asperità sino alla conclusiva Distant Shore e quasi non ci accorgiamo della sua fine. E questo qualcosa vuol dire, più in negativo che in positivo, forse. Anche in veste “spiritual folk” la voce di Karen Elson rimane piana e incapace di aggiungere le sfumature incisive e coinvolgenti che i testi in alcuni momenti esigerebbero.
Non ci sentiamo di fare paragoni, tanto meno di scomodare mood à la Joni (Mitchell) – à la Elizabeth (Fraser) – à la Kate (Bush), come qualcuno ha fatto. Con tutto il rispetto per il bel disco di Elson, lì si parla di ben altre stature.
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