Molto hype per i Khruangbin, al quarto disco con A La Sala.
Probabilmente sto invecchiando; un po’ già lo sapevo, però speravo che almeno sulla musica la cosa arrivasse più tardi possibile; per questo mi sono sempre sforzato ad aprire orecchie e cuore alle cose nuove, sapendo che spesso lì non avrei trovato un nuovo Beggars Banquet o una nuova Aretha, ma magari qualcosa di intrigante e stimolante sì, qualcosa che mi regalasse un nuovo ed inedito stupore, quella sensazione così bella che ti capita quando ascolti la buona musica.
Per cui ero mosso dalle migliori intenzioni quando il Grande Capo mi ha chiesto di occuparmi dell’ultima prova di questi Khruangbin, band che non avevo mai sentito, ma di cui avevo letto qua e là e che mi pareva essere parecchio hype, al di là del nome – parecchio brutto a dire il vero.
A La Sala (Dead Oceans) è la quarta prova per il terzetto texano (DJ Johnson, batteria, Laura Lee basso e Mark Speer chitarra), la prova che dovrebbe portarli al piano superiore della scena musicale alternativa, quella più mainstream e di successo, dopo aver creato un culto per pochi fedeli con le precedenti prove, dove hanno dato sfoggio della loro originale miscela a basse di funk, desert blues, surf music, con inserti che, mi dicono, attingono anche alla tradizione folk del sud est asiatico.
D’altro canto, il terzetto gode di illustri endorsement, da David Byrne a Flea, da Questlove a, addirittura, Sir Paul McCartney.
Dovrebbe essere quindi una bella sorpresa l’ascolto di questo disco, e invece…
E invece purtroppo, per quanto mi riguarda, non lo è per nulla: Khruangbin – A La Sala è un disco noioso, senza guizzi o sorprese e, fondamentalmente inutile.
Il disco si apre con Fifteen Fifty-Three, pezzo che potrebbe anche promettere qualcosa di buono, con una languida chitarra che suggerisce panorami desertici, su un morbido e swingante tappeto di basso e batteria e anche la successiva May Ninth, con un avvolgente giro di chitarra, potrebbe fare ben sperare. E invece poi il disco prosegue in modo parecchio autoreferenziale con una manciata di pezzi che ripetono con risultati alterni una medesima formula: una musica dolcemente evocativa, ma senza nessun picco, senza nessuno scarto, una classica elevator music, innocua come l’acqua ed emozionante come una coda in autostrada.
Un disco il cui ascolto è sostanzialmente una perdita di tempo, 40 minuti buttati via, che non aggiunge nulla e non ti dà nulla, magari piacevole, rilassato ma anche totalmente e irrimediabilmente inutile. E la vita è troppo breve per poter ascoltare anche musica inutile.
Quando incontrerò Paul McCartney comunque gli chiederò che cosa ci ha trovato; son proprio curioso di sapere cosa mi dirà.
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