E alla fine ne parliamo pure noi: Måneskin – Rush!
È difficile parlare dei Måneskin per il bagaglio di chiacchiere e discussioni che ormai li accompagnano, e al quale avevamo preferito sottrarci, ma lo facciamo in occasione dell’uscita di Rush! Agli occhi e soprattutto alle orecchie del pubblico rock (e dintorni) maturo e con molti ascolti alle spalle, come siamo anche noi qui su TomTomRock, il fenomeno Måneskin ha sorpreso: essere usciti da X Factor e aver vinto l’Eurovision, si sa, non è che qualifichi più di tanto (Abba a parte), anzi. Poi c’è stata la canzone con Iggy Pop, ma quello fa anche la pubblicità alle assicurazioni per un po’ di soldi; poi hanno aperto per i Rolling Stones, ma sono spazi che si comprano, non è che li hanno scelti loro. Di fatto, però, il tour promozionale di Rush! i Måneskin lo fanno in spazi da 20mila spettatori; per esempio, all’AccorArena di Parigi, che ha quasi quella capienza, con prezzi fra i 50 e i 70 euro, i biglietti sono sold-out. A questo punto è difficile evitare di parlarne, dunque cerchiamo di scrollarci i pregiudizi di dosso e di riferire le impressioni sul nuovo album.
Chi c’è alle spalle del successo
Rush! proietta i Måneskin nella dimensione internazionale che li vede ormai protagonisti. Non solo è cantato in larga parte in inglese, ma è pure affidato, almeno in parte, a una produzione ben differente rispetto a quella degli esordi. Lasciata ormai l’ala protettrice di Manuel Agnelli, il produttore e soprattutto manager Fabrizio Ferraguzzo compare nei crediti per i brani più vecchi che hanno trovato posto nel disco; a Ferraguzzo si devono i successi di Achille Lauro e Pinguini Tattici Nucleari, e in più a lui i Måneskin devono i contratti importanti di cui sopra (Iggy, Stones). Tuttavia, Ferraguzzo non scrive canzoni ed è evidente che, per l’avventura internazionale che li attende, i Måneskin di Rush! avevano necessità di variare il suono sub-RHCP che li aveva caratterizzati agli esordi.
Sono dunque stati affidati alle sapientissime mani del duo Max Martin – Rami Yacoub (ma non sono gli unici, almeno Sly va pure ricordato) che non solo producono, ma aiutano anche il quartetto nella scrittura. Sempre dietro le quinte, questi due hanno firmato molti dei grandi successi del pop da classifica di questi ultimi vent’anni e oltre, a partire da …Baby One More Time di Britney Spears. In tutto questo non vedo nulla di male, il pop mainstream si è sempre costruito così, tenendo presente ciò che il pubblico vuole ascoltare, nel senso che è abituato a farlo, con la capacità di mettere insieme (a seconda dei generi) riff, linee melodiche, ritornelli che si ricordano facilmente.
Un prodotto pop
Allo stesso tempo, però, questo pone i Måneskin e Rush! al di fuori del contesto di “rinascita del rock” nel quale a volte i simpatizzanti li vorrebbero collocare: sono un prodotto pop dall’inizio alla fine, e hanno scelto un’estetica che rinvia alla forma che il rock ha avuto negli ultimi cinquant’anni, cioè grosso modo da quando è nato. Ci sono gli strumenti tradizionali, peraltro ben maneggiati dai quattro; c’è il look pacchianamente anni ’70; ci sono i riff. La concezione, però, resta quella del prodotto pop, nel loro caso con l’aggravante dell’imprinting X Factor, che si traduce nell’eccessiva presenza di cover e dallo spirito di emulazione eletto a manifesto.
I mille riferimenti di Måneskin – Rush!
Di fatto, tutto Rush! è una enorme cover, non di singoli brani, ma del rock in generale. Ci si sentono i già menzionati RCHP, i Muse, i Nirvana (il riff di Supermodel preso da Smells Like Teen Spirit), e pure Bon Jovi, e un po’ di tutto quanto abbia dato un’immagine al rock contemporaneo. Il disco si apre pimpante con Own My Mind e Gossip (la traccia con Tom Morello), ma viene immediatamente autoaffondato dalla ballatona Timezone. Baby Said è tra i momenti più immediatamente orecchiabili; fa ridere che i Måneskin scelgano di cantare in inglese i momenti più spinti (come qui, dove la Baby invita a non parlare e a leccargliela), che vanno bene per il pubblico internazionale, mentre alla pudica Italia lasciano “zitti e buoni”. Il che va di pari passo con la piacioneria del “fuck Putin” e della bandiera dell’Ucraina sul palco, dove la lezione del peggior rock (e ce n’è stato con le maglie delle nazionali e delle squadre di calcio, o con le bandiere di paesi belligeranti sempre quando conviene, e così via) è stata evidentemente mandata a memoria alla perfezione.
Il momento peggiore
In generale, dei testi è veramente meglio non parlare. La palma del brano peggiore va a Kool Kids, una imitazione degli Idles che vorrebbe essere ironica: i Måneskin non sono “cool” perché non ascoltano trap e pop, ci fanno sapere, e tutti sanno che il rock’n’roll è merda, ma a loro sbatte un cazzo non essere cool; nel ritornello aggiungono “non siamo punk non siamo pop siamo freaks della musica”. Il tutto servito con un finto accento alla Joe Talbot, cioè imitano uno che è stato accusato di imitare l’accento della working class.
Non tutto sarebbe da buttare via in Rush! poiché i Måneskin sono comunque riusciti ad avere un pugno di canzoni non sgradevoli e che restano facilmente in mente, movimentate quanto basta per tener vivo l’interesse del loro pubblico ai concerti. Certamente sui 50 minuti è impossibile da reggere, e la scelta di cacciare in fondo alcuni singoli abbastanza slegati dal resto, tipo bonus tracks, lo ammoscia. La sensazione di aver a che fare con cosplayers del rock è veramente troppo forte e lo fa andare di traverso più di qualsiasi altra cosa, insieme all’attitudine finto-ribelle ben evidenziata dal video di Gossip. Se fossero un giocattolo, l’etichetta consiglierebbe dai sei ai dodici anni.
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Ottima recensione, per questo rara sull’argomento
Grazie!