Ep’s 1988-1991 and Rare Tracks: il pezzo ‘strano’ fra le ristampe dei My Bloody Valentine.
Per avere fra le mani i supporti fisici, ammesso che vi interessino, si dovrà attendere il prossimo 21 maggio, ma queste nuove ristampe dei dischi dei My Bloody Valentine, su etichetta Domino, offrono sin d’ora la possibilità di ascoltare finalmente sulle principali piattaforme di streaming il canzoniere di una delle band più innovative e influenti di sempre. Anche se la Domino proclama altisonante di aver ristampato l’intero loro catalogo, viene preso in considerazione solo il repertorio a partire dal 1988, ossia dal passaggio alla label Creation. Si tratta quindi dei tre album ufficiali più questa sostanziosa raccolta di Ep e brani inediti, già pubblicata dalla Sony nel 2012.
Ep’s 1988-1991 and Rare Tracks racconta un momento fondamentale nell’evoluzione dei My Bloody Valentine
Si tratta comunque del periodo decisivo, quello in cui i quattro irlandesi hanno forgiato il suono che li ha consegnati alla storia. I primi dischi, quelli con David Conway alla voce, li vedevano autori di un rock gotico affatto diverso ed un po’ incerto, vicino allo psychobilly dei Cramps e al blues malato di Birthday Party e Gun Club, mentre i due Ep incisi nell’87 con la nuova arrivata Bilinda Butcher (fondamentale soprattutto il suo apporto vocale) sono da considerare lavori di transizione, per quanto già molto pregevoli.
A questo punto il loro riferimento principale sono i Jesus and Mary Chain, che con la loro miscela di stordente feedback chitarristico e suadente melodia pop scoprono una formula semplice e perfetta, il classico uovo di Colombo. I MBV la fanno evolvere, condividendo lo stesso interesse per le melodie cristalline di classica matrice sixties in una maniera che la band scozzese, per limiti tecnici, non è stata in grado di fare, e la orientano verso le atmosfere sognanti e soffici del dream-pop di marca Cocteau Twins.
A partire dal 1988 i My Bloody Valentine sagomano il loro suono
Ascoltare questa compilation è interessante perché da modo di seguire l’evoluzione che li ha portati a concepire l’album Loveless nel ’91, il capolavoro definitivo, la cui perfezione, perseguita con cura maniacale, fu tale da inibire la stessa band, incapace per oltre due decenni di pubblicare altro. Per chi è più attento ai suoni è anche l’evoluzione della tecnica chitarristica di Kevin Shields, uno fra gli ultimi, insieme a pochi altri shoegazer, a tirare fuori dalla sei corde elettrica qualcosa di radicalmente nuovo.
L’Ep You Made Me Realise, dell’88, offre una title track imparentata con l’indie-rock di band americane quali Dinosaur Jr e Hüsker Dü, in cui il frastuono raggiunge un crescendo assordante, il basso fuzz pulsa con la stessa leggerezza di un mezzo cingolato, il ritmo incalza, ma le voci vellutate si tengono miracolosamente in equilibrio sul rumore, ottenendo quel caratteristico, paradossale e straniante effetto di dolcezza e languore, che sarà uno dei marchi di fabbrica dei Valentine. Thorn e Drive It All Over Me sono fra le loro melodie più belle, quasi beatlesiane, la seconda riesce ad alternare passaggi semiacustici e bordate noise con grazia ineccepibile.
La chitarra di Kevin Shields
Il suono della chitarra su Slow è così trasfigurato da sembrare quello di uno strumento completamente diverso. Shields gioca in maniera creativa col riverbero, il tremolo ed un vasto arsenale di effetti e pedali, più che ai riff o agli assoli è interessato a creare tessiture e paesaggi sonori, in questo è affine ai due chitarristi dei Sonic Youth, coi quali condivide l’utilizzo di accordature diverse da quella standard.
Sempre nell’88 arriva l’Ep Feed Me With Your Kiss. Nella cupezza garage del brano omonimo e nella cadenza funebre di I Need No Trusts sopravvive qualcosa dello spirito gotico degli esordi, sepolto sotto la consueta coltre di rumore. I Believe e Emptiness Inside sono costruite su un wall of sound sempre più stratificato e minaccioso ma, misteriosamente, anche sensuale e carezzevole.
Gli Ep degli anni ’90
Con le quattro canzoni dell’Ep Glider saltiamo al 1990. Shields inizia a giocare anche col campionatore, la struttura dei brani si fa più minimale e ancora più ipnotica, i suoni ancora più astrusi e psichedelici, Soon è un lungo strumentale che si appoggia su un ritmo dance, Glider è quasi industrial, la melodia torna rassicurante in Dont’ Ask Why e Off Your Face, dolcissima soprattutto la seconda.
Il 12 pollici Tremolo arriva all’alba del ’91. In To Here Knows When ci sono già i suoni estatici ed eterei di Loveless, Swallow è psichedelia mediorientale, costruita su un campionamento da un brano di musica per danza del ventre, Honey Power un noise-pop con coda strumentale fatta di sonorità manipolate e rovesciate, Moon Song è davvero un’indescrivibile canzone dell’altro mondo, la voce ormai irriconoscibile degli strumenti ha una consistenza aerea, priva di peso…
Instrumental no. 2 e Instrumental no. 1 vengono da un 7 pollici accluso alle prime 5.000 copie di Isn’t Anything: la prima abbina astratti suoni ambient con un cadenzato ritmo hip hop, la seconda è un rock incalzante che ben si presta ad accompagnare corse su motore a folle velocità.
La versione estesa di Glider arriva da un Ep del ’90 e dilata il pattern frastornante e l’effetto incantatorio del brano già citato, per oltre 10 minuti. I tre inediti che chiudono il disco, Angel, Good For You e How Do You Do It, sono pop songs fragorose, probabilmente non le migliori né le peggiori del loro repertorio, ma sono validi esempi di come si possano raggiungere vertici sublimi di armonia e bellezza per mezzo dell’amplificazione e della distorsione più estreme, senza paura di sfiorare il grottesco.
Il ‘significato’ dei My Bloody Valentine
Coi My Bloody Valentine, eredi a modo loro della drone-music dei Velvet Underground, della psichedelia più cerebrale, dei minimalisti americani, del raga indiano, l’indie-rock raggiunge una grandiosità orchestrale, una densità quasi mistica. È la catarsi di una generazione cresciuta al suono della musica più aggressiva degli anni ’80, passata dalla foga del pogo e della slam dance allo shoegaze, dove il fissare le scarpe, o la pedaliera della chitarra, indica anche il raccoglimento e l’attenzione di artisti totalmente concentrati sulla loro musica, con la stessa dedizione di un jazzista o di un professore d’orchestra.
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