Neil Young - World Record

Quarantaduesimo (!) disco per l’incontenibile Neil Young

Neil Young, si sa, di morti e resurrezioni, in quasi sessant’anni di carriera, ne ha messe in fila più di nostro Signore. Sarà che è vissuto e ha lavorato di più, sarà che si è accontentato di meno, ma così è.

Canzoni epocali e disastri colossali, una vita musicale avventurosa, non di rado vissuta con sprezzo del ridicolo, sprofondi nei laghi gelidi dell’imbarazzo e colpi d’ala inattesi, quando non veri e propri scoperchiamenti della bara a sorpresa e a funerale in corso.

Fatto sta che con World Record (Reprise Records) si arriva al quarantaduesimo disco in studio, quindicesimo con i Crazy Horse, fedeli compagni di strada e temuti, dal sottoscritto almeno, più della peste nera. Con queste premesse, la paura che possano piovere cavallette è non solo lecita, ma sintomo di sano  e vigile spirito di autodifesa da parte dell’ascoltatore.

Ammettiamo la debolezza, però. Chi scrive è sempre stato, e sempre sarà disposto a perdonare tutto al canadese. Anche a costo di illudersi che ne esistano due, di Neil Young, uno buono e uno cattivo. Il primo in grado di concepire After The Gold Rush (1970), una delle perle più diafane e splendenti fissate nei cieli nel country rock e del folk di ogni tempo; il secondo, invece, non soltanto è in grado di non vergognarsi di mettere al mondo Re-ac-tor (1981) – album tanto brutto da meritare di essere messo in orbita nelle stazioni spaziali come severo monito agli alieni – ma l’anno dopo fa addirittura scopa con Trans, parto di una mente infernale, se possibile (se possibile) ancora più brutto del predecessore.

Per tacere, va da sé, delle sbandate politico-ideologiche, delle leccate di stivali ai potenti del momento, e delle astuzie da agente di commercio dispensate a piene mani lungo decenni di musica indimenticabile.

World Record è uno dei dischi più brutti di Neil Young?

Ora, il punto è questo: World Record è un disco brutto, a tratti imbarazzante. Non ti sveglia nel cuore della notte urlando, come i due illustri precedenti, ma squaderna tutto l’armamentario del Neil Young che abbiamo amato, per buttarlo in terra alla rinfusa, in un canto. Eppure.

Abbondano le ennesime ripuliture degli angolini di Harvest (la quartina della banalità, Love Earth, This Old Planet, Overhead e The Long Day Before) per inscenare la solita improbabile commediola, caracollante fra folk acustico e country rock. Ci sono i rock saturi e grondanti di chitarre di I Walk With You, The World Is In Trouble e soprattutto di Break The Chain, eterno marchio di fabbrica e condanna dei Crazy Horse, che si rivelano quanto meno all’altezza dell’intero disco, suonando male e confermando che l’esperienza, se proprio non ti peggiora, ti lascia come sei (se hai fortuna). Eppure.

C’è l’imbarazzante, lamentoso auto-calco (non di una canzone in particolare, ma della propria ‘maniera’ in generale) che è Walkin’ On The Road. E qui siamo all’inferno meno visibile ma non meno doloroso di World Record, i testi. Nel ritornello risuona un memorabile “no more war /only love”, e non è quanto di peggio capiti di ascoltare, fra girotondi sulla madre Terra tanto generosa e maltrattata e pensierini sulla pace nel mondo che verrebbe da sperare siano una raffinata presa in giro (ma si sa che non è così). Eppure.

Quando tutto sembra perduto World Record tira fuori una splendida sorpresa

Eppure, alla fine di una scaletta che meriterebbe complessivamente un voto parametrato su temperature polari, ci sono i 15’ e 15’’ di Chevrolet e sembra, per una volta, che il tempo non sia passato. Un’esplosione densa e grumosa di suono scaraventata alle latitudini astrali di Southern Man, niente di meno. Le chitarre dei Crazy Horse, per una volta, suonano come si deve, e le parole sfilano in una apologia desolata della fine prossima di una vita fatta di mille curve.

Anche se il volante è d’avorio, le autostrade affollate sono ormai soltanto vecchi fantasmi, i dolori passati un ricordo lontano, e la morte la prossima curva presa con troppo brio: “Gone is the crowded highway / Lost are the roads we left behind / Found in the place they live inside of me”.

C’è ancora vita sul pianeta di Neil Young; ma se un testamento musicale avrà, il più tardi possibile, da essere scritto per questo cowboy elettrico che tanto ama le auto e i trenini elettrici, Chevrolet avrà parole da dire e suoni con cui accompagnarne il cammino.

Neil Young - World Record
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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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