Paul Simon - Seven Psalms

Paul Simon e Seven Psalms: un disco in sogno

«Ho fatto un sogno il 15 gennaio 2019. E il sogno diceva: “Stai lavorando a una canzone chiamata Seven Psalms”. Era così vivido che mi sono svegliato e l’ho scritto, il che non è tipico di me. Né prendo istruzioni dai miei sogni. Ma questo era un sogno molto potente. Ed era anche l’anniversario della morte di mio padre. Probabilmente è solo una coincidenza, se credi alle coincidenze. Io ci credo». Così Paul Simon al poeta britannico Paul Muldoon che lo ha intervistato per la rivista The Big Issue.

Le parole prima dell’alba

«Dopo circa un anno di raccolta di queste composizioni per chitarra, ho iniziato a svegliarmi nel cuore della notte, tre o quattro sere a settimana, sempre alla stessa ora, tra le 3:30 e le 5:00. Le parole arrivavano e io scendevo dal letto. Lasciavo la stanza per non disturbare mia moglie. E scrivevo solo quelle parole che stavano arrivando».

Il risultato inaspettato è una sorta di cristallina composizione unica per chitarra acustica, per complessivi trentatré minuti, in sette movimenti. Il numero sette è considerato, tra i suoi molteplici significati scientifici, razionali, filosofici e metafisici, il simbolo generico per tutte le associazioni con Dio. L’Ebraismo lo considera il numero religioso favorito perché rappresenta l’alleanza di santità e santificazione, nonché di tutto quello che è, in intento, santo e santificante. Per uno che crede nelle coincidenze, ce n’è abbastanza.

Paul Simon

La rappresentazione della vita verso la sua conclusione

C’è un fascino personale, tutt’altro che malinconico, semmai curiosamente luminoso, nei dischi dei grandi del pop e del rock che si avvicinano alla fine della vita. Ciò a prescindere se sono ammalati, quindi chiamati anche incidentalmente alle ultime riflessioni e volontà, come David Bowie, Leonard Cohen e Franco Battiato nella struggente Torneremo ancora, o se sono soltanto giunti a un’età in cui guardare indietro fornisce una rappresentazione del proprio universo sensibile inevitabilmente più vasta del guardare avanti: penso al Bob Dylan immaginifico di Rough and Rowdy Ways.

In Paul Simon quell’afflato luminoso si manifesta in un flusso di coscienza che suggerisce, come ha osservato la webzine Pitchfork, una comprensione veterotestamentaria del divino. Questa sensazione è confermata dalla copertina del disco, il dipinto Two Owls di Thomas Moran, paesaggista della Hudson River School, dove due civette, antico simbolo di sapienza ancestrale, ma anche semplicemente un’allegoria dell’autore insieme alla moglie, la cantautrice Edie Brickell che lo coadiuva, scrutano da un ramo il cielo dell’alba che rischiara gli alberi intorno.

L’autore, per calibrare il senso della narrazione, ha studiato e adattato ai tempi moderni i salmi del re David. Ma chi si aspettasse astruse verbosità religiose può tranquillizzarsi: accanto alla poesia, non mancano l’ironia e la ricerca inquieta delle risposte alle domande. Simon stesso ha detto che nel disco parla molto di Dio, ma non sempre per lodarlo.

«Il Signore è il mio tecnico del suono e il mio produttore discografico»

Sono emblematici versi come: «Il Signore è il mio tecnico del suono. /Il Signore è il mio produttore discografico. /Il Signore è la musica che sento /giù nella valle e nello scenario». Oppure verità pesanti dell’età senile là dove l’autore avverte, come in altra maniera David Gilmour tre anni fa nella canzone Yes, I Have Ghosts: «Sento le canzoni dei fantasmi che possiedo /saltellare, suonare jazz, gemere /attraverso un microfono duro e rotto». La caducità, ma anche l’attaccamento alla vita, trovano espressione nell’invocazione laica: «Aspetta, non sono pronto. /Sto solo preparando il mio equipaggiamento. /Aspetta, la mia mano è ferma. /La mia mente è ancora chiara».

«Alla fine è tutta una discussione che sto avendo con me stesso intorno all’idea di credere o no» ha dichiarato l’autore a proposito del senso d’un lavoro che giunge a cinque anni scarsi da In the Blue Light. Nel settembre 2018 fu il quattordicesimo album solista. Giunto due anni prima dal ritiro dalle tournée riarrangiando alcune canzoni meno celebrate del suo repertorio esteso sei decadi, il disco fu considerato il congedo da una carriera formidabile iniziata alla fine degli anni Cinquanta con Art Garfunkel alle feste scolastiche nel distretto del Queens, a New York, cercando di emulare gli Everly Brothers con il nome Tom & Jerry.

Se si volesse ricercare un rimando uditivo e sentimentale a Seven Psalms nel canzoniere di Paul Simon, l’associazione immediata è al terzo dei cinque dischi con Garfunkel, Parsley, Sage, Rosemary and Thyme, 1966, e nella fattispecie al canto popolare, Scarborough Fair, il cui ritornello intitola l’album. L’acustica minimale e mistica di quella canzone ha per protagonista, oltre alle voci in duo, la chitarra acustica, un basso, un clavicembalo, un glockenspiel.

Nel nuovo album, prodotto insieme a Kyle Crusham, il cantautore, quando sente la necessità di rafforzare la bella voce colloquiale che l’età ha appena scalfito, si fa coadiuvare dal gruppo vocale britannico Voces8 e dalla Brickell, quest’ultima nei duetti The Secret Harp e Wait. Oltre alle armonie vocali, il paesaggio sonoro disegnato dalla sua chitarra acustica si avvale di archi e percussioni ovattati da un’elettronica gentile che consolida l’atmosfera mistica e meditativa.

La fine del tempo

«Per la mia generazione il tempo è scaduto» ha detto a proposito della scomparsa di Jeff Beck e di Gordon Lightfoot. Durante la realizzazione dell’album, l’artista ha smesso di sentire bene dall’orecchio sinistro: «Nessuno sa spiegarselo, ogni cosa è diventata difficile». Indebolito dalla pandemia («Il virus Covid è il Signore. /Il Signore è l’oceano che si solleva. /Il Signore è una terribile spada veloce. /Una semplice verità che sopravvive»), ottantadue anni a ottobre, Paul Simon potrebbe dare l’addìo definitivo ai concerti.

Seven Psalms rappresenta non il suo testamento artistico, ma una narrazione del suo punto di vista rispetto al tempo che finisce. «Quando si tratta della fallibilità del corpo e dell’enigma dello spirito, Simon, che è ebreo, non sembra legato a nessuna visione del mondo» ha scritto il New Yorker. Un appassionato della sua musica ha scritto su YouTube: «Paul non ha idea che esisto, ma ho passato tutta la mia vita ad ascoltarlo cantare di giovinezza, giovani amori, viaggi con l’acido allo zoo, politica, matrimonio, canzoni a suo figlio per addormentarsi, divorzio, crepacuore – e ora, Dio & Morte. Ha 25 anni più di me. Sono così felice che abbia illuminato il cammino che ho davanti. Questo album è una delle cose più belle che abbia mai ascoltato».

Paul Simon - Seven Psalms
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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