Atto secondo della storia del Ray Davies “americano”.
Ray Davies riunisce i Kinks e incide un nuovo disco di cui molto si parla. Non male per un settantaquattrenne dalla vita assai vissuta.
Il ritorno della band che fu quasi meglio di Beatles e Stones – con annesso nuovo album 25 anni dopo Phobia – si può intanto commentare con un ovvio “finché non li vedo (sul palco) non ci credo”. D’altronde proprio a chi scrive Sir Raymond Douglas Davies aveva detto, qualche anno fa, “con mio fratello Dave bisogna stare sempre attenti”.
Ray Davies racconta ancora una volta la sua America
Quanto a Our Country / Americana Act II un’osservazione sorge spontanea: la parola “Act” non porta bene al nostro. Preservation Act I e Preservation Act II sono fra gli LP meno riusciti dei Kinks e adesso Our Country sta ricevendo recensioni in buona parte negative. Mentre il precedente Americana aveva raccolto consensi pressoché unanimi.
In realtà poco è cambiato fra un atto e l’altro di questo omaggio (con rose belle ma spinose) agli Stati Uniti. L’ispirazione la fornisce sempre il volume di memorie Americana: The Kinks, The Riff, The Road: The Story e i Jayhawks fungono sempre da gruppo d’accompagnamento.
Le critiche di cui si diceva sono state rivolte soprattutto all’eccessiva presenza di recitativi, al fatto che molti titoli siano vignette di genere senza grande sostanza sonora e al tono troppo serioso del progetto. A corroborare quest’ultima tesi sul retro di copertina c’è una spiegazione da depliant di agenzia turistica rock che inizia così: “Our Country conduce l’ascoltatore in viaggio insieme al personaggio principale [della storia] dopo che questi abbandona le terra e la famiglia che fino a quel momento erano state sue”.
Our Country: una storia d’amore e pallottole
Inutile dire che il personaggio principale è Ray Davies medesimo. Ray che cresce sognando l’America e poi la “invade” insieme ai Kinks. Ray alle prese con una groupie molto espressiva (“e se non riesco a venire fingerò per te”). Ray con la nostalgia di casa. Ray che riprende Oklahoma U.S.A. da Muswell Hillbillies, l’album dei Kinks che era l’America vista da un pub di Londra. Poi arriva una lunga parte dedicata al soggiorno a New Orleans conclusosi con una pallottola nel femore. Infine ecco il ritorno a casa (“Sono un londinese dopo tutto”) e la chiusa affidata all’unico pezzo rock del disco, Muswell Kills (ancora una citazione), cantato caricando l’accento inglese.
Tutto troppo serioso ed egoriferito, dunque. Sì, verò. Però il disco ha un suo fascino che è dato dalla corrente di affetto tra fan e artista che Ray Davies riesce sempre e comunque a creare e che lo rende così diverso da altre rockstar sue coetanee. E poi almeno una canzone magnifica c’è, agrodolce come tutti i classici del canone kinksiano. Si intitola The Big Guy ed è dedicata a due guardaspalle dei Kinks durante i loro tour americani, figure bonarie e protettive anziché minacciose. Sarebbe da inserire nella scaletta dei prossimi concerti del gruppo. Ammesso che Dave Davies sia d’accordo.
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