Soft Machine - Other Doors

Soft Machine: un gruppo multiforme.

Meno male che il vetusto ma sempre affascinante brand dei Soft Machine non è stato riesumato dal loro affossatore, sir Karl William Pamp Jenkins (scambiato da certe teorie della cospirazione per Meghan Markle sotto mentite spoglie all’incoronazione del re Carlo III: sissignore). Fu colui che condusse il gruppo a declinare in impeccabili e inutili composizioni jazz fusion con formazioni avulse dal quartetto eponimo che gli appassionati ricordano come la propria squadra di calcio: Mike Ratledge tastiere, Hugh Hopper (1945-2009) basso, Elton Dean (1945-2006) fiati, Robert Wyatt batteria e voce.  

Soft Machine Third
La formazione classica con Dean, Hopper, Ratledge, Wyatt dall’interno di copertina di Third

È la band di Third, 1970, formidabile crocevia britannico ed europeo tra free jazz, minimalismo, psichedelia e creatività di frontiera (in basso, quella formazione nel video pubblicitario della riedizione d’un concerto alla televisione francese insieme al fiatista Lyn Dobson). Chi lo ascoltasse e poi lo facesse seguire da Land Of The Cockayne (che non è l’aspirazione all’infame polverina tossica ma una leggendaria terra medievale dell’abbondanza), ultimo album a nome Soft Machine di undici anni dopo con una formazione che comprendeva il famigerato Jenkins e il batterista John Marshall più nove blasonati musicisti salariati tra cui Allan Holdsworth (1946-2017) e Jack Bruce (1943-2014), faticherebbe a trovare un senso comune.

Proprio le tante, troppe formazioni diverse, da Daevid Allen (1938-2015), futuro capo dei Gong, fino appunto a Jenkins che trasformò il gruppo in una succursale dei Nucleus da cui proveniva, hanno reso la storia dei Soft Machine più erratica dei coevi King Crimson che, con i Pink Floyd psichedelici, completavano il terzetto dei gruppi alternativi della Londra underground tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.

Il ritorno della Macchina Soffice

Theo Travis, già nei Gong dal 1999 al 2010 (giusto per ribadire la continuità con i Soft Machine originali co-fondati, come gli stessi Gong, da Daevid Allen), coautore di diversi dischi con Robert Fripp e per un pelo non convocato nell’ultima riedizione dei King Crimson, musicista di supporto ai Porcupine Tree e a Steven Wilson, giusto per citare le medaglie più splendenti della sua collezione, nel ‘06 fu chiamato a sostituire il defunto Elton Dean nei Soft Machine Legacy. Quel gruppo era un’evoluzione dei Soft Ware composti, nel 1999, da Dean, Hopper, Marshall e Keith Tippett (1947-2020). Nel ‘02 Tippett lascia e al suo pianoforte subentra la chitarra di Holdsworth: il gruppo si rinomina Soft Works. Nel ‘04 diventano Soft Machine Legacy, con John Etheridge che si avvicenda a Holdsworth come nei Soft Machine del 1976. 

Dopo Dean, muore Hopper. Anche lui è sostituito da chi l’aveva fatto nei Soft Machine del ’74: Roy Babbington. Nel ‘15 i Soft Machine Legacy tornano a essere semplicemente Soft Machine. Tre anni dopo, il convincente Hidden Details è il loro primo album in studio da Land Of The Cockayne. La formazione è stabilizzata nel quartetto Etheridge, Travis, Marshall, Babbington, che gira il mondo in tournée. La testimonianza sonora è l’album Live At The Baked Potato nel ’20.  

Theo Travis: il demiurgo

Classe 1964, Travis in quel quartetto è l’unico che nei Soft Machine del primigenio tragitto, per ovvie ragioni anagrafiche, non ci ha messo piede. Sassofonista, flautista, occasionale tastierista e compositore, laureato in Musica a Manchester specializzandosi nelle opere di Dmítrij Dmítrievič Šostakóvič, è un musicista strutturato che si pone in dialogo spontaneo con un maestro della chitarra qual è John Etheridge, eclettico nell’ambito del jazz nonché della musica classica e contemporanea. I nuovi Soft Machine traggono energia soprattutto dall’interazione tra i due, anche se è principalmente Travis, con la sua versatilità, a collegare e sviluppare sonorità che, attente al passato nobile e tuttora ricco di possibilità inesplorate, spostano più lontano il senso della musica. 

La riproposizione di alcune composizioni dei Soft Machine che furono (The Man Who Waved At Trains, l’ultima di Mike Ratledge con il gruppo nel 1975, e Out Bloody Rageous da Third nel disco del 2018, Penny Hitch e Joy Of A Toy in quello attuale), saldandole a quelle del presente, è la maniera migliore per fissare una continuità che non ha nulla di forzato, bensì scorre con naturale ispirazione. Sembra quasi che Travis, avendo riconosciuto spontaneamente a Etheridge il suo spazio artistico e prendendosi cura di musicisti di grande valore ma dalle possibilità limitate dall’età, Marshall e Babbington (per i quali Other Doors è il canto del cigno), sia diventato il demiurgo dei Soft Machine senza imporsi, ma consentendo a ognuno di esprimere le sue qualità migliori ricevendo la legittima considerazione.

Un’altra fine, un altro inizio

“Questo nuovo album segna un nuovo capitolo nella storia della band, sia una fine che un inizio per questa band unica che esiste ormai da 55 anni” si legge nel comunicato di presentazione di Other Doors. “Questo album in studio vede l’ultima apparizione della leggenda che è John Marshall, il nostro meraviglioso batterista. John ha messo tutto il cuore in questo disco e, da quando ha completato la registrazione e ha suonato un ultimo incredibile concerto all’iconico Ronnie Scott’s Club di Londra nel luglio 2022, ha deciso di ritirarsi a causa di continui problemi di salute. L’album vede anche l’ingresso del bassista Fred Baker nella band dopo il ritiro dell’unico e inimitabile Roy Babbington. Noi – John, John, Fred e Theo – siamo tutti molto orgogliosi di Other Doors in quanto presenta della nuova musica fantastica e un modo di suonare ispirato, nonché la rivisitazione di due classici dei Soft Machine: Penny Hitch (da Seven) e Joy of a Toy (dal primo album)”. 

“Il tempo cattura tutti noi e Marshall e Babbington lasciano la band con un album che delizierà i fan dei Soft Machine” scrive Jazz Views. Etheridge resta così l’unico ad aver fatto parte del gruppo negli anni Settanta. Fred Thelonious Baker, classe 1960, chitarrista e bassista, è un sostituto naturale, diciamo così, di seconda generazione rispetto a Babbington che lo ha scelto alla fine del ’21 quando ha lasciato. Ha infatti suonato con Etheridge fin dagli anni Ottanta e nel 1988 è subentrato a Hopper negli In Cahoots, formazione jazz d’avanguardia guidata dal chitarrista Phil Miller (1949-2017). Il sostituto di John Marshall, il batterista più longevo nella storia dei Soft Machine essendo stato, dal dicembre 1973, in tutte le formazioni e le formazioni satellite, è l’israeliano Asaf Sirkis, presentato nei concerti dal vivo in Inghilterra tra febbraio e maggio. Sirkis, però, non suona in Other Doors, mentre Baker ne è protagonista e Babbington è presente in due composizioni.    

Si, ma il disco?

Parlare serenamente dei Soft Machine oggi, senza semplificazioni che lasciano lacune alla gran parte dei lettori che non sono spettatori di lungo corso della saga, richiede necessariamente di dire tutto quello che è stato detto. Other Doors, per la Moon In June Records come il precedente Hidden Details, è un titolo fortemente significante. Le porte in questione, infatti, potrebbero essere quelle dei flussi di coscienza sonora che il gruppo attuale ha reso udibili in un album che esalta la concezione orientale del musicista. La raccontò, tanti anni fa, Robert Fripp in uno dei suoi scritti illuminanti: il musicista è colui che permette alla musica di manifestarsi invece che, come nell’idea consumista occidentale, l’artefice proprietario. I Soft Machine attuali sono in continuità con il passato e spontaneamente sintonizzati, con il senso atemporale di chi è alla ricerca della musica e non della moda o della tecnologia, con il presente e il futuro.

Soft Machine - La formazione con Marshall, Etheridge, Travis, Baker
La formazione con Marshall, Etheridge, Travis, Baker

Se Hidden Details aveva spunti più duri, emblema d’un gruppo che rischiava d’essere preso per la cover band di sé stesso e quindi doveva dimostrare qualità, ma anche energia, Other Doors sviluppa percorsi di narrativa sottilmente psichedelica ben rappresentati dall’immagine di copertina con la ragazza dal volto sostituito da un grumo di colori e il suo impatto con la parete invisibile oltre la quale schizza il colore rosa. Inizia e finisce con il flauto meditabondo di Travis che elabora, insieme a Etheridge, melodie e improvvisazioni magistrali. Le undici composizioni originali e le due reinterpretazioni fluttuano per i cinquantasei minuti del disco (settantuno per diciassette composizioni considerando i bonus, tra cui la reinterpretazione di Backwards) come se fossero parti d’una sola suite coinvolgente e ipnotica. Riascoltarlo in loop non porta a distaccarsene facendo crescere la prevedibilità, ma esalta prospettive diverse del suono e dell’assemblaggio compositivo, ricco di spunti creativi e di riff che si fanno ricordare.

Lo spazio per questa musica

La verità è che, dal 1967, c’è sempre stato uno spazio, talvolta di nicchia, spesso più ampio, per la musica dei Soft Machine. Se nel 1971 non avesse prevalso il massimalismo free jazz di Ratledge e Hopper, ma ci fossero state delle possibilità per le sperimentazioni di Wyatt, magari con la presenza di qualche altro elemento dalla creatività sghemba e versatile com’era quella di Daevid Allen e di Kevin Ayers (1944-2013) invece dell’ortodossia Nucleus alla Jenkins, dopo Third il gruppo avrebbe forse preso altre strade più popolari, un po’ come i Pink Floyd di The Dark Side Of The Moon, o irresistibilmente originali, come i King Crimson di Red, invece che isolarsi nella prigione jazz fusion. Oggi un elemento eclettico qual è Theo Travis, insieme a un virtuoso qual è John Etheridge, potrebbe far fare ai redivivi Soft Machine quel salto immaginario che non fecero quando i protagonisti erano altri.

Se è vero che i tempi sono cambiati ed è inverosimile un’ascesa come avveniva negli anni Settanta, in Other Doors s’intuisce che c’è spazio per un’ulteriore crescita nella qualità e nel valore della musica, di per sé, allo stato attuale, meritevole della massima considerazione. La pubblicazione ad aprile, da parte della specializzata Cuneiform Records, del doppio cd The Dutch Lesson, resoconto d’un concerto a Rotterdam del 26 ottobre 1973, ci dice che il pubblico dei Soft Machine c’è. E ci dovrebbe essere ancora di più, soprattutto quello più giovane, per un disco come Other Doors, brillante e innovativo.

La prima porta si aprì quando l’allora ventinovenne Daevid Allen, in un giorno del 1967, telefonò negli Stati Uniti allo scrittore William Burroughs per chiedergli il permesso di utilizzare, come nome del gruppo che aveva fondato, il titolo d’un suo romanzo di sei anni prima: The Soft Machine. Da allora tante altre porte si sono aperte, poi si sono richiuse. Oggi altre riaprono, lasciando intravedere importanti possibilità per la musica che verrà.

Soft Machine - Other Doors
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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