Steven Wilson - The Harmony Codex

Steven Wilson e The Harmony Codex: un geniaccio furbacchione.

Il settimo album solista è il migliore di Steven Wilson o addirittura, come è stato sussurrato, un capolavoro? Secondo me, no. Non è neanche un grande disco. Se lo si paragona alla sua produzione solista, come è corretto fare senza scomodare i Porcupine Tree, i No-Man e le altre sue esperienze in gruppi, The Harmony Codex non arriva alla visionaria e sublime continuità concettuale e creativa, lungaggini comprese, di Hand. Cannot. Erase., 2015, quello sì un grande disco. Idem se lo si confronta con The Raven That Refused To Sing (And Other Stories), ’13, dallo stellare spleen noir.

Semmai il geniaccio sa essere anche un furbacchione. Da quando i suoi album hanno raggiunto, nel Regno Unito e in Europa, il podio nelle classifiche, la sensazione è che cerchi di barcamenarsi, dal suo garage londinese che gli serve come studio di registrazione, tra arte, sperimentazione, gusto personale, accessibilità. Ecco quindi che, al posto della continuità stilistica, ha preferito una versatilità sonora, simboleggiata visivamente in copertina e nella grafica da citazioni del cubo di Rubik, che attraverso la scomposizione e la ricomposizione dei generi musicali accontenti quante più persone possibile. 

Invito al viaggio

Steven Wilson, però, è Steven Wilson: la manipolazione del suono deve avvenire con una certa qualità e originalità ispirata. Il confezionamento, visivo e sonoro, sa essere ammaliante. Ecco spiegati, quindi, i grandi entusiasmi, anche un po’ ingenui e compiacenti, per un album che, senza essere irrinunciabile, è comunque bello e notevole. Di valore, anche.

L’artista, oltre a essere un’enciclopedia vivente del rock al punto da avere, come tecnico del suono, rimasterizzato parecchi grandi dischi degli anni Settanta ricevendo la fiducia di musicisti sofisticati come Robert Fripp, ha già spiegato molto bene, rivendicando inattaccabili quarti di nobiltà artistica, il senso del valore della sua musica. “Sono nato nel 1967/l’anno di Sergeant Pepper’s /e di Are You Experienced” ha cantato a suo tempo con i Porcupine Tree. Un lavoro suo, fosse anche discutibile e discusso come il precedente di due anni fa, The Future Bites, non può quindi non ricevere attenzione e curiosità. Di The Harmony Codex ha detto: “È un vero viaggio, un bel disco labirintico e sperimentale da sessantacinque minuti in cui quasi ciascuna delle dieci tracce prende un approccio musicale diverso. Spero che tutti voi possiate ascoltare l’album per come è pensato, un continuo viaggio musicale o un pezzo di cinema per le orecchie”.   

Ventitré minuti epocali

Sperimentale, in realtà, l’album lo è più in apparenza che in sostanza. Tutto il resto di quello che dice Wilson, però, è vero. l quasi trentotto minuti che vanno da What Life Brings, la canzone più melodiosamente pop psichedelica, alla title track che nei suoi elettronici avvitamenti ricorda, ma più algida e aliena, certe atmosfere dei Radiohead, sono impeccabili. I primi ventitré, fino al termine dell’epica canzone di Ninet Tayeb, Rock Bottom (stesso titolo dell’immenso disco di Robert Wyatt: questa caduta di stile Wilson poteva risparmiarsela), sono semplicemente epocali rispetto all’idea del viaggio musicale o del cinema per le orecchie. Cantata con grande intensità dalla stessa artista israeliana, negli avvicendamenti emozionali del disco coincide con The Great Gig in the Sky rispetto a The Dark Side of the Moon: certe corrispondenze, in uno come Wilson, possono non essere casuali.

In mezzo Economies of Scale, pubblicata come primo singolo, è delizioso art pop elettronico, mentre Impossible Tightrope è un rarefatto stop-and-go di oltre dieci minuti che raggiunge l’acme con il sax lancinante di Theo Travis. Molto Porcupine Tree è Beautiful Scarecrow. Meno interessanti l’iniziale, marziale, irrisolta Inclination, che risente dell’attrazione di Wilson per le sonorità pesanti, e le tre composizioni in coda: Time Is Running Out, abbastanza noiosa, Actual Brutal Facts, ritmata e ripetitiva, Staircase, oppressiva per due terzi dei suoi oltre nove minuti per divenire, alla fine, ipnotica e volatile.     

Troppa grazia, Mr. Wilson

Si sa che la cura del suono è un aspetto fondamentale dei lavori di Steven Wilson. Si sa anche che c’è un mercato per benestanti che non si fanno problemi ad acquistare edizioni deluxe con alternative di vario genere alla track list principale. Nei lavori contemporanei le edizioni deluxe servono ad assorbire tutto quel materiale d’archivio che negli ultimi anni sta arricchendo, spesso in maniera favolosa, la discografia degli artisti della grande stagione del rock verace: Bob Dylan, Neil Young, Joni Mitchell, eccetera. 

The Harmony Codex è previsto, sul mercato americano e su quello inglese, anche in edizione deluxe, a tiratura limitata, composta da tre dischi. Oltre all’album normale c’è n’è un secondo, Harmonic Distortion, con settantasette minuti in cui le composizioni vengono immaginate e rielaborate da artisti come Manic Street Preachers, Roland Orzabal dei Tears For Fears, Interpol (il batterista Sam Fogarino è tra gli ospiti nella registrazione principale), Mikael Åkerfeldt degli amati (da Wilson) Opeth, Faultline, Meat Beat Manifesto, Radiophonic. Il terzo disco contiene una versione dell’album in Blu-Ray con mix Dolby Atmos, 5.1 surround e Hi-Rex 96/24 stereo, oltre a mix strumentali esclusivi, video e un libro di cento pagine. Dicono che la versione Dolby Atmos sia bellissima. 

Steven Wilson - The Harmony Codex
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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