Getting Into Knives: The Mountain Goats sfoderano un capolavoro a metà.
La sigla The Mountain Goats esiste da quasi trent’anni, ma da molto meno si può parlare di gruppo vero e proprio, anziché di semplice emanazione del cantautore e alt-rocker letterato John Darnielle.
I dischi usciti a nome Capre di Montagna sono ormai una ventina, sempre di buon livello e con almeno un titolo di struggente bellezza quale Goths (2017), album a tema dedicato ad attempati goth-rockers di varia fama.
The Mountain Goats go to Memphis
Darnielle è uno che ama lavorare sui concetti, sulle idee, sulla nostalgia creativa. Nel caso di Getting Into Knives pare che il tema sia l’acqua, anche se dai testi la cosa non appare troppo percepibile. Più significativo il fatto che il turbo-nerd di Bloomington, Indiana abbia portato i suoi tre compagni a Memphis in uno studio storico come il Sam Phillips Recording, dove 40 anni fa i Cramps registrarono l’opera prima Songs The Lord Taught Us. Alle sessions ha partecipato, con il suo organo Hammond, il settantatreenne Charles Hodges, celebre per aver suonato nei dischi più classici di Al Green. Eppure questo non è un disco psychobilly e nemmeno soul. A dirla tutta, molto spesso suona più inglese che americano. Dal punto di vista qualitativo lo si può definire un mezzo capolavoro, o meglio un capolavoro a momenti.
Il grande inizio di Getting Into Knives e poi il calo
I primi quattro pezzi sono sensazionali. Un perfetto esempio di come il sapiente uso di un frullatore modernista possa ben assemblare passato e passato prossimo. Un perfetto esempio, anche, di come il rock sia reinventabile con una saggia fusione di acume e sensibilità. Lo dimostra, ad esempio, la ritmica simil-rocakbilly che regala un sapore particolare all’iniziale Corsican Mastiff Stride. Qui si ascolta un pop frizzante ma anche profondo (Get Famous), scintillante ma con qualche mezzatinta minacciosa, come in As Many Candles as Possible.
Dopo questo inizio geniale, che potrebbe piacere tanto ai fan dei Belle & Sebastian quanto a quelli dei National o dei Waterboys, il disco resta notevole con l’introversa Tidal Wave, dopodiché si siede a pensare. E pensa troppo. Pensa testi molto belli nel loro disagio chiaroscurale, mentre la musica si scurisce e basta, come se Darnielle si fosse reso conto che la levità non s’addice al momento presente. Se restano passaggi apprezzabili come Bell Swamp Connection, uno slow burner tra The Go-Betweens e Balthazar, la sensazione è comunque di un progressivo spegnimento.
Per fortuna in extremis arriva la title-track, incalzante senza averne l’aria, diciamo da Van Morrison in versione intellettuale e abbastanza desolata: “Lungo il cammino spirituale mi sono trovato in un vicolo cieco/ Ho ritrovato il cammino verso casa/ Ma la casa era bruciata prima del mio arrivo /E mi solo trovato solo”. Di nuovo un grande pezzo, dunque, pur senza la verve iniziale, come a dire che Darnielle è scrittore dai registri diversi e quasi sempre efficaci.
Tale è la perplessità per questa doppia vita dell’album che si prova a più riprese a verificare se la vita più scialba non possa rivelare virtù nascoste (come in un thriller improbabile). Invece niente, anzi ci si infastidisce ulteriormente per il tempo perso e per le speranze suscitate da quell’inizio folgorante.
Giudizio finale. Per i pezzi 1-5 e 13 il voto è 9; per i pezzi 6-12 diciamo un 6,2 politico. Il risultato complessivo è (più o meno):
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