The Smile - Wall of Eyes

The Smile e Wall of Eyes: buono il secondo

Missione compiuta, quella del ritorno degli Smile, con un aiutino del nuovo produttore, Sam Petts-Davies, sostituto di Nigel Godrich, insieme agli archi sublimi della London Contemporary Orchestra. Il secondo album li svincola abbastanza dall’idea, inevitabile ascoltando il disco d’esordio, di trovarsi di fronte ai Radiosmile, o Smilehead che dir si voglia. Certo, udire la voce di Thom Yorke non può non far pensare al gruppo di provenienza. Ma anche Paul McCartney con i Wings rimandava ai Beatles. Andiamo per ordine.

Il progetto The Smile è a fuoco

A Light for Attracting Attention, un anno e mezzo fa, aveva diversi spunti interessanti e qualcuno incantevole (canzone preferita: la seducente Open the Floodgates). Non poteva, però, non far pensare a un side-project dei Radiohead. La speciale sintonia artistica e creativa tra il frontman polistrumentista e cantante, Yorke obviously, e il musicista fondamentale nonché chitarrista tra i migliori al mondo, Jonny Greenwood of course, era in atto da tempo. L’aveva certificata il pacato video, con batteria elettronica, di The Numbers, la canzone epica di A Moon Shaped Pool, ‘16, ancora oggi l’ultimo album del gruppo. L’esordio discografico dei due insieme a Tom Skinner, batterista dei Sons of Kemet, nonostante i concerti brillanti insieme non sembrava aver reciso, in studio, le forti radici intrecciate in oltre trent’anni di attività.

Wall of Eyes, invece, stacca la mongolfiera dal suolo. Lo avevano fatto ben sperare i singoli pubblicati sul finire dello scorso anno. La musica fluisce ricca, a tratti straripante, con l’orchestra che la consegna a un ascolto talvolta sedotto da momenti d’incanto, opportunamente privato di certe asperità post punk del recente passato. Si può così cominciare a guardare agli Smile come a un’entità propria con originali sonorità ragionate, adulte, colte. Addirittura, come e più dei Radiohead, abbondano le architetture sonore dall’andamento cinematografico, qualunque sia il film che la loro musica proietta nella vostra mente.

Un disco da ascoltare per intero. E poi riascoltarlo

Wall of Eyes contiene meno composizioni rispetto al primo: otto a tredici. Meglio. Significa averle pensate tutte da Smile, non da ex progetti solisti o dei Radiohead come sembravano poter essere alcune del passato. 

Tutti gli arrangiamenti sono abilmente calibrati. Ovunque Yorke canta ispirato, evocando anche, in certi momenti, Steven Wilson (Teleharmonic) e il fantasma tenero di Jeff Buckley (Friend of a Friend). Tutte le canzoni risuonano accattivanti. Nessuna, tranne una, è eccezionale. Nell’atmosfera che infonde sentimenti positivi con sottofondo agrodolce, permeando l’intero album, aleggia la consapevolezza del valore di tanti buoni ascolti che, senza esplicite citazioni né, sia chiaro, furti d’autore, sono come chiavi di lettura nella mente dell’ascoltatore iniziato: dai Can all’amato (da Greenwood) Krzysztof Penderecki, sfiorando (You know Me!), la magia ancestrale dei Popol Vuh.

Una canzone meravigliosa

L’eccezione, abbagliante, sono gli otto minuti di Bending Hectic, singolo pubblicato lo scorso giugno, il secondo da Wall of Eyes dopo la title-track. Suonato per la prima volta al Montreax Jazz Festival del 2022, da allora è diventato un mito tra i fan del gruppo. Su un tappeto di chitarre in parte dissonante, seguito da un crescendo orchestrale d’atmosfera, Yorke canta, con rimpianto e senso d’estasi, accarezzando un pensiero suicida mentre guida tra i tornanti alpini. Alla fine perde il controllo dell’auto nonostante abbia abbandonato la voglia di morire. La frenata e la caduta nel burrone è nel crescendo orchestrale seguito dalla potente chitarra noise di Greenwood, un andamento che, è stato detto da molti, ricorda quello che John Lennon definì “il suono che parte del nulla e arriva alla fine del mondo”: la leggendaria cacofonia orchestrale di A Day in the Life. Tanto più che la canzone, come parte del disco, è stata registrata a Londra negli studi di Abbey Road.  

La nuova frontiera per il rock che fa pensare (ed emozionarsi)

Gli Smile sono, per varie ragioni, un effetto della pandemia che ha interrotto per due anni gran parte dei concerti dal vivo. L’ultimo dei Radiohead risale al ‘18. A novembre si è diffusa la notizia, data in una diretta streaming dal batterista del gruppo, Philip Selway, che tra non molto i cinque potrebbero tornare a lavorare insieme. 

In realtà la nuova frontiera che gli Smile hanno dimostrato di poter offrire al rock che fa pensare, orfano dei grandi gruppi del progressive ormai in età da pensione e con l’incertezza che regna sovrana sul futuro, ad esempio dei Porcupine Tree, potrebbe rendere superflua, oltre l’impeto delle passioni, la ricostituzione di questo grande gruppo storico. Trio ormai collaudato, intelligente ed emozionante, artefice d’un rock insieme classico e innovativo, gli Smile potrebbero anche essere meglio. 

Vedremo cosa ne penseranno Yorke e Greenwood. Skinner, sciolti due anni fa i Sons of Kemet, ormai preferisce la loro compagnia a quella di Shabaka Hutchings. A meno che i Radiohead non decidano, come i King Crimson del 1995, di dotarsi d’un doppio batterista. 

 

The Smile - Wall of Eyes
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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