The Soft Cavalry: il disco di Steve Clark e Rachel Goswell.

La storia della musica come medicina si arricchisce di un nuovo capitolo intitolato The Soft Cavalry.
Siamo nel 2014. Steve Clark è un sessionman di discreta notorietà che fa anche il tour manager. Non si è troppo ripreso dal divorzio di tre anni prima e beve molto. Gli viene chiesto di seguire la tourneé degli Slowdive, appena riformatisi dopo 19 anni di silenzio. Negli Slowdive c’è Rachel Goswell; Steve la sposerà un anno dopo.
La nascita del progetto The Soft Cavalry
Trascorre un altro po’ di tempo e Steve Clark decide che la storia di questo colpo di fulmine, che per lui ha significa una rinascita totale, deve essere raccontata. Come a dire che amore qui fa rima con autore. Certo, The Soft Cavalry è nominalmente il disco di Steve Clark e Rachel Goswell, ma in realtà le redini della morbida cavalleria sono soprattutto in mano al barbuto Steve, mentre Rachel svolge il ruolo dell’amazzone cosmica: una presenza eterea, un ruolo quasi protettivo. Non a caso è la sua voce che in Passerby canta: “Sarò qui proprio al tuo fianco/ Una passante nel nostro cammino verso la prossima vita”.
The Soft Cavalry è un disco tra il malinconico e il trasognato e dai suoni molto stratificati e molto inglesi. Ricorda cose di epoche diverse, dai Pink Floyd wishyouweriani agli Slowdive (ovviamente), dai Talk Talk ai The xx. E’ un disco che ogni tanto si perde in mezzo a troppa rugiada, ma questo è anche il suo bello, se si entra nel mood. A volte resta troppo a lungo sospeso, come nel caso di Home, che impiega 3 minuti e 56 secondi prima di uscire (peraltro bene) dal torpore. A volte invece va subito al dunque come in The Velvet Fogg, quasi possente nel suo andamento. Poi c’è la via dream-pop suggerita da Bulletproof che in futuro potrebbe dare parecchie soddisfazioni melodiche.
Steve Clarke firma tutti i testi di The Soft Cavalry
I testi, tutti firmati da Clarke, paiono uniti da un filo tematico, come conferma l’interessato: “E’ la guarigione contro i i nuovi dubbi. E io mi ci trovo proprio in mezzo. La parola che mi tornava di continuo in mente era ‘resilienza’. Con la giusta mentalità e se si ha qualcuno intorno, la famiglia soprattutto, se ne esce e si trova un qualche grado di speranza”.
Alla fine quello che rende il progetto apprezzabile a prescindere è la sensazione di sincerità, di amore per la musica e per l’idea di fare musica. Di amore tout court, volendo essere retorici. Lo si potrebbe far ascoltare a un corso di recupero per haters digitali.
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