L’opera prima dei The Waeve, ovvero Graham Coxon dei Blur e Rose Elinor Dougall con la loro strana musica lounge
Mentre molti sono in attesa del nuovo album dei Gorillaz e io non sono tra quelli (preferivo i The Good, The Bad etc…), ecco cicciare fuori dalle ceneri di quel che fu il britpop, un disco decisamente inconsueto ad opera di Graham Coxon (che dei Blur fu axeman) insieme alla chanteuse Rose Elinor Dougall che, nel frattempo, tra una nota e l’altra, è pure diventata compagna di vita del Coxon.
Inutile dire che in The Waeve (Transgressive Records) non c’è assolutamente nulla di quelli che, per qualcuno, furono gli antichi fasti della ex band, anzi, il territorio è abbastanza straniante: siamo dalle parti di una lounge ambientata dove si svolge Spazio 1999 mentre il fantasma del Duca si occupa di arrangiare i fiati periodo Diamond Dogs. Insomma, un oggetto quantomeno strano, amniotico e figlio anch’esso del periodo isolazionistico in cui è pandemicamente nato.
E proprio nelle sue dieci songs The Waeve trova compimento coeso e perfetto, strumentazione scarna ma feng shui, un esempio da seguire per gli affastellanti rimasugli di quelle bands che compongono ormai vuoti inni per stadi pieni di ipoacustici.
Le canzoni di The Waeve
Il piccolo noise che apre Can I Call You è lieve concessione ad una canzone che potrebbe essere nel Boatman’s Call del vecchio Cave, salvo poi assumere una allure alla idiot energy di enoiana memoria , quasi motorik, e lasciare posto al sax e ad un chorus quasi cockney, insomma bell’incipit… Kill Me Again parte come un country noir composto a Berlino: il cantato stentoreo di Coxon ne segna le geografie, molto bowiana, ma come esimersi ormai da cotanta influenza? Over and Over ti aspetti che arrivi la voce di Alex Turner ultimo mood e invece cominci a pensare che slow is the new fast e che forse un movimento rallentato sia più eccitante che spasmodici ritmi.
Il sonnambulismo sonoro di Sleepwalking affiora tra sussulti di musica da camera moderna, anche qui un gran lavoro di fiati (chissà che prima o poi non tornino di moda, ma bisogna imparare a suonarlo lo strumento), Drowning si apre pleonasticamente liquida, il cantato di Rose assume seduzioni cinematografiche e l’assolo assurdo di armonica, che segue all’intro, spiazza sino ad arrivare al maelstrom minaccioso del finale cantato da Coxon.
Con Someone Up There il ritmo prende posizione sinora inedita, robotica al midollo, quasi un omaggio a certi anni’80 e, nella sua sintetica durata, episodio interludico. All Along ha un nonsoché di pagano, un peana ancestrale quieto e con uno strano elemento dronico al sapor di Cale periodo Velvet.
Undine pare una outtake della migliore Goldfrapp, quella intimista e non caciarona; si affaccia nuovamente un sax – l’ho detto che lo suona Coxon? – e la si può immaginare cantata su un piccolo palco illuminato da un occhio di bue in quel di Soho. Alone and Free dice tutto nel titolo, quasi floydiana nel suo essere eterea e ipnotica, l’alternarsi del cantato fa la differenza, le due platoniche parti della mela congiunte alla perfezione. Si chiude con You’re All I Want to Know, cibernetica ballad molto fifties che Albarn non riesce più a scrivere e me ne dolgo, perfetto esempio di titoli di coda.
Forse un giorno qualcuno scriverà un saggio su lavori musicali e non nati durante lockdown e vari; potrebbe essere antropologicamente interessante veder come le arti han trovato espressione in un periodo inedito nella nostra storia e questo disco andrà sicuramente citato come potente singulto necessario.
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