Ty Segall – Ty Segall.

Ty Segall continua a far uscire dischi ribollenti. Dischi che, alle orecchie forse poco ricettive di chi scrive, continuano a sembrare alla ricerca di una direzione che non sia il semplice furore sonico. Per di più il biondo californiano sceglie fastidiosamente di chiamare questo disco con il suo nome (già ce n’era uno, l’esordio del 2008) e si complica la vita con un prodotto notoriamente a rischio, l’album dal vivo composto di pezzi inediti. Si tratta di una categoria che conta pochi esempi riusciti (più o meno) come il mitico Time Fades Away di Neil Young e forse, ma il paragone funziona assai meno, il semi-live di Jackson Browne Running On Empty.
Ty Segall picchia duro ma con scarso costrutto
La scaletta mostra subito i muscoli e parte, a decibel spiegati, con due brani che flirtano con i riff del grunge, ma cadono presto nel glam rock più trito, dominato da assoli chitarristici banali e da una voce ispirata, come sempre, a mostri sacri quali Bolan e Bowie.
E anche la fantasia latita
Molte delle recensioni, peraltro assai positive, paiono invaghite delle prolungate jam tipo Grateful Dead, in particolare Warm Hands. In realtà, nell’esecuzione non ci sono né l’acidità, né la fantasia né, tanto meno, il pregevole interplay del gruppo di Jerry Garcia, Quel che si ascolta è solo un protrarsi masturbatorio degli interminabili 10 minuti del brano (e in alcune interviste Segall ammette pure qualche sovraincisione).
Per contro i due, tre episodi più riflessivi si dimostrano anche più convincenti, Un esempio in tal senso è Talkin’, un ibrido tra blues e ballata che funziona, pur scontando un certo debito verso Elliott Smith e John Lennon (che è un po’ la stessa cosa, poi…). In questo contesto più meditato fa il suo figurone anche Orange Color Queen, una quasi normale canzone d’amore.
Ci dispiace non allinearci al coro degli entusiasti, come Pitchfork ad esempio, ma qui, e forse anche sotto il palco, nonostante l’energia consumata, comanda lo sbadiglio…
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