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 Un disco straordinario: Sufjan Stevens – Carrie & Lowell.

La storia raccontata da Sufjan Stevens in Carrie & Lowell è così straordinaria che rischia di far passare in secondo piano il disco in quanto tale. In realtà quel che si ascolta qui è un esempio di perfetta interconnessione fra vita e musica: più o meno il dovere di essere come musicista all’altezza di quanto vissuto come uomo. Un circolo dolorosamente virtuoso, insomma.
Carrie era la madre di Sufjan Stevens, Lowell è il patrigno. Nella foto di copertina è Lowell che pare non esserci con la testa (capelli inclusi). Le cose stanno diversamente: Carrie, afflitta da sindrome bipolare e alcolista, lascia la famiglia quando Sufjan (ultimo di sei fratelli) ha un anno. Qualche tempo dopo sposa Lowell. Intanto Sufjan vive con il padre che, in nome di un’educazione libera da schemi precostituiti, non tiene in casa né televisione né radio né giradischi. Passati cinque o sei anni Carrie si separa da Lowell e più o meno scompare dalla circolazione. L’ormai adolescente Sufjan continua a vedere Lowell che gli fa scoprire Nick Drake, Bob Dylan e Frank Zappa e ne incoraggia i primi passi musicali. Insieme i due fondano la Asthmatic Kitty che è ancora oggi l’etichetta dei dischi di Sufjan Stevens. Questi nel 2012 riceve la notizia della malattia terminale di Carrie e trascorre con lei alcuni, difficili giorni. Da quest’esperienza nasce Carrie & Lowell, scritto a tappe nel corso di un viaggio, anche in bicicletta (giusto per non farsi mancare niente) nell’ovest degli Stati Uniti.

Nonostante le vicende narrate, Carrie & Lowell non è un disco pesante

Roba pesa, eh? Eppure il disco è così lieve nella sua sofferenza, così contenuto anche nelle frasi più drammatiche  da far sembrare sensazionalistici due recenti esempi di pathos cantautoriale da noi ottimamente recensiti quali Benji di Sun Kil Moon e I Love You, Honeybear di Father John Misty.  E se la musica è all’altezza della storia, è forse perché la storia sembra avere aiutato la musica a liberarsi di certe passioni pericolose, per quanto ben gestite, come la grandeur di Illinois o la passione per gli esperimenti  noise di The Age Of Adz. Detto che Stevens fa sentire poco il banjo (strumento che usa in modo originale), è però molto fluido come chitarrista e, soprattutto, capace di piccoli guizzi melodici che sono ancora più commoventi perché sembrano spuntare dal nulla.

 

Forse è proprio questa sensazione di naturalezza a far sì che il disco non suoni come consapevole autoterapia e sembri anzi ispirato in automatico-inconscio dall’insopprimibile diesidero di dire qualcosa agli altri (da cui anche la struttura a ‘flusso’ del lavoro). Qualcosa di simile, ma con emozioni opposte, fu, tanto per fare un esempio classico, la travolgente e quasi mistica felicità amorosa narrata da Van Morrison in Tupelo Honey (*).  Un voto alto a uno dei migliori dischi pesanti-ma-leggeri nella storia della musica e un applausone a Lowell (Brams) per la collezione di vinili.

8,5/10

 Le informazioni biografiche su Sufjan Stevens sono tratte dall’articolo “The prodigal son” di Laura Snapes, apparso sul n. 215 (aprile 2015) della rivista Uncut.

(*) Tanto per fare i cinici, un paio d’anni dopo la pubblicazione di quel disco Van the Man fu buttato fuori di casa dalla moglie-musa ispiratrice, la fotomodella Janet Planet.  

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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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