Articolo: Anita Lane - Sex O’Clock

La riedizione di Sex O’Clock, disco ammaliante di Anita Lane.

Anita Lane se n’è andata, per quanto ne sappiamo all’improvviso, lo scorso 27 aprile. Anita è sprofondata quasi subito in quel silenzio, appena increspato di curiosità, pudico e muto, che aveva fatto schermo ai suoi ultimi, morbidi decenni, lontani dalle dissonanze scalmanate, non solo musicali, dei suoi anni giovani di sperimentazione ed avanguardia, ed è stato come se una manciata di terra avesse ricoperto per sempre il tempo stregato ed irripetibile in cui un’Australia giovane e incontinente, con la sua fretta di consumare la vita, sbarcò a Londra e ancor più a Berlino, e sembrò dover insegnare la musica al mondo intero.

Oggi, quel tempo di cui Anita Lane fu la musa umorale e controvoglia, enigmatica ed inclassificabile, è puro ricordo, definitivamente inabissato con i suoi resti mortali. Chi è rimasto ed è sopravvissuto, non di rado sovrastandoli, a quegli anni, racconta ormai da molto un’altra storia, come è giusto che sia.

Dai Birthday Party ai Bad Seeds

Anita, cifra musicale informe ed imprendibile, celata e appena visibile dietro i poster sgualciti dei  The Birthday Party prima e dei Bad Seeds poi, è stata una camminatrice solitaria, apparentemente distratta e dispersiva, che chiunque avrebbe voluto afferrare, rubare a pezzi. Ricordandola con amore, Nick Cave ha scritto che lavorare con Anita Lane, convinta che le idee migliori fossero quelle che non vedono la luce del giorno, era come tentare di rinchiudere un fulmine in una bottiglia. Di più o di meglio sarebbe difficile dire.

Anita non aveva infatti che poche briciole luminose da spremere da se stessa e offrire alla musica. Pochissima pazienza per il palcoscenico, che le creava ansie ingestibili, nessuna per le comparsate pubbliche, neppure proponibili. Una vocazione assoluta per le parole ed i suoni scavati nell’abisso: vale giusto la pena di ricordare che Stranger Than Kindness e From Her To Eternity sono carne della sua carne.

Anita lane

Ma Anita Lane era anche volontaria, per quanto recalcitrante, dispersione di sé nel mondo altrui, ben altrimenti solido, pioggia fluida di stelle, condensata non di rado in collaborazioni vocali, ridotta molto spesso al suo solo esistere ed al suo essere per gli altri, forse nella crescente consapevolezza (almeno questa è la sommessa convinzione di chi scrive) di come l’urgenza creativa possa esser tutto, ma possa essere anche soltanto una piccola parte di noi fino a diventare nulla, un guscio da lasciare lungo la strada, a cospetto della vita.

Luminosa e sorridente, eppure pozzo di oscurità, caricata ad ondate di un’intensità scostante e varabile, si fa presto a scorrere la discografia solista di Anita. Due EP, Dirty Sings e The World’s A Girl, del 1988 e del 1995, e due album, la raccolta di torbide gocce sparse, ma quanto luminose, Dirty Pearl (1993) e il suo capolavoro Sex O’Clock, uscito nel 2001, e che proprio nelle scorse settimane, a venti anni di distanza, si ripubblica.

La stella di Anita Lane brilla in Sex O’ Clock

E venti anni dopo Sex O’ Clock è, se possibile, ancor più ammaliante di allora. Trascinata in studio da Mick Harvey, fra i pochi riusciti ad estrarre da Anita Lane, faticosamente ma con continuità, un succo musicale, il disco è in larga parte opera di questo ostinato seme malvagio, a partire da una produzione memorabile e dalla tessitura di un ombroso e vibrante tappeto sonoro che lega e connette le mille anime di Anita al mondo dei Bad Seeds.

Articolo: Anita Lane - Sex O’Clock

Quel che resta ancor oggi di più difficile definizione, e costituisce il fascino tutt’altro che secondario di quello che può essere considerato l’unico, organico, lavoro solista di Anita, è la messa a fuoco della sua autonoma cifra stilistica. Forse perché Anita Lane è semplicemente la sua voce, non di rado soltanto un coro; una voce che è come un rossetto sbavato, da bambina troppo in fretta cresciuta e troppo abituata ai grandi; un sussurro che non sapresti dire se sfuggito ad un postribolo di Melbourne o ad un coro angelico (ma verosimilmente di entrambi). Una voce che aveva in sé sempre qualcosa di troppo e al tempo stresso di troppo poco, incerta e timida, provocante e insinuante, costantemente in primo piano, sempre fuori da ogni cliché canoro: voce di una ‘non cantante’ che si ostina a non voler cantare, fino a riuscirci.

Un disco da non perdere

Sex O’ Clock è uno dei grandi dischi degli ultimi venti anni e lo trovate ancora là, dove Anita e Mick Harvey lo hanno lasciato, in un territorio impossibile fra un soul da Cappuccetto Rosso che brucia all’inferno ed un funk incerto e sincopato, non dimentico di qualche passo di danza, che si intorbidano nei suoni pastosi dei Bad Seeds, accompagnandosi a vertiginose verticalizzazioni d’autore. Un territorio impervio, abitato dalle presenze di Serge Gainsbourg, di Marvin Gaye, di Leonard Cohen e dei Velvet Underground più soffici e folk, ad azzardare alcune difficili (ed insufficienti) coordinate.

I momenti migliori di Anita LaneSex O’Clock

Non c’è canzone in Sex O’ Clock di cui non si possa dire che è una grande canzone. Home Is Where The Hatred Is apre il disco ed è un razzo incendiario, un soul-funk ammorbidito, titubante e slabbrato che avrebbe potuto scrivere Marvin Gaye se fosse stato un membro aggiunto dei Bad Seeds; The Next Man That I See e Do That Thing, compongono un dittico soul sdrucito ed ammiccante, arricchiti della festa di falsa innocenza che gronda dalla voce di Anita. I Hate Myself, brusca e scura sterzata su suono d’archi e chitarre, avrebbe potuto figurare fra le punte più acuminate e splendenti del troppo poco rammentato Let Love In di Nick Cave. La danzante A Light Possession, che segue, è invece la Sexual Healing di Anita, che nella hit di Marvin Gaye aveva già offerto una prova di sé a dire poco memorabile. I Love You, I Am No More e Like Caesar Needs a Brutus sono due funk sghembi, malintenzonati, e disegnano una danza sincopata e strascicata che si avrebbe timore di ballare pur conoscendo i passi. Né vale meno il gioco torbido, seducente e lascivo di Do The Kamasutra.

 

Ma è il dittico finale di Sex O’ Clock che lascia ogni volta chi scrive in preda ad un giusto sconcerto. Se The Petrol Wife, che avrebbe potuto essere immaginata da Leonard Cohen (se solo avesse avuto la ventura di trovarsi scaraventato nell’inferno di una cameretta di bambina dipinta di rosa) è, per chi scrive, semplicemente la canzone più bella degli ultimi venti anni, la chiusa del disco è di quelle che non si dimenticano, con la versione più scorticata e dolorosa che mai sia stato dato udire di Bella Ciao, spogliata di ogni veste eroica, litania lenta e funerea di amore e morte.

Anita Lane aveva rinunciato alla musica per la vita. Quella quotidiana, anonima, fatta di affetti, di figli molto amati, si dice, di quiete. Quella vita se l’è presa, nel modo in cui forse lei stessa avrebbe desiderato e voluto. Fortunato chi ha assistito al suo passaggio e non ha più saputo (e sono molti) dimenticarlo. Doveroso, in sua memoria, credere (o sperare almeno) che “death is not the end”.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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