Arise, Dan Sartain, Arise

A un anno dalla scomparsa, ricordiamo l’arte di Dan Sartain

È tanta la retorica sotto il cielo basso della musica. Ciascuno di noi, a cominciare da chi scrive, non manca alla bisogna di contribuire con un verso o un suono stonato al gran concerto dei ricordi e delle suggestioni. Belli e dannati, maledetti e sfortunati. L’attrazione a fare del romanzo sulla vita di chi si è amato cercando quanto di noi si è perduto, la tentazione eterna e innocua del bamboleggiare sul fumetto dei beautiful losers, il capriccio di interrogarsi per mille volte, ché non costa nulla, se it’s better to burn out than to fade away, la propensione allo struggimento sulla sfortuna altrui, sono sirene che seducono. E che ingannano. Quando il re se ne va, di rado lo si ricorda.

Daniel Fredrick Sartain (13 agosto 1981–20 marzo 2021)

Dan Sartain, però, se ne è andato per davvero, il 20 marzo di un anno fa, a 38 anni. Aveva pronto un disco, bello, bello come (quasi) tutti i suoi precedenti, Arise, Dan Sartain, Arise!, che ha avuto in sorte di uscire qualche mese dopo la sua morte improvvisa. Le cause, ignote, ma, si dice, sospettate. Di certo, c’è che i familiari di Dan Sartain non avevano di che pagare lo straccio di un funerale ed hanno dovuto ricorrere ad una sottoscrizione on line fra i (pochi) fan, gli amici, gli incrollabili fedeli. I proventi di Arise, Dan Sartain, Arise! andranno alla figlia di Dan, alla ragazzina che Dan non ha avuto il tempo di crescere, quella stessa che si affaccia nel rock ‘n’ roll scoppiettante di Daddy’s Coming Home che chiude il disco.

 

Questo lunatico cantore di Birmingham, Alabama, amava e rispettava la musica. Ne ha succhiato e distillato il midollo. Il mondo della musica, con poche eccezioni illustri, tanto più rimarchevoli (Jack White e i White Stripes, fra questi) non si è curato di lui. Si vorrebbe dire che lo ha dimenticato, ma no: semplicemente non si è accorto che esistesse. E Dan, prima di morire, aveva ripiegato su un modesto negozio di barbiere, a Birmingham, Alabama, perché con la musica non viveva e di musica non voleva morire.

Dan Sartain Vs The Serpientes

Dai tempi dell’esordio folgorante di Dan Sartain Vs The Serpientes (2005), da quella lotta indimenticabile con i cobra della vita e della mente che non l’ha mai lasciato, da quella miscela fulminante di echi garage,  sonorità surf, ritmi rockabilly, affondi power pop, suggestioni più western che country, combinati in un impasto incantato che non avresti saputo dire se avevi davanti Roy Orbison, i Ramones, i Clash o i Butthole Surfers, Dan si è districato per quindici anni, combattendo la tristezza della vita, l’avarizia dell’arte ed il deserto degli affetti.

Se nei lavori successivi gli ingredienti sono rimasti gli stessi di quell’esordio memorabile, di volta in volta a mutare sono stati i pesi, le quantità, e la capacità di tenerli in equilibrio. Dischi veloci, rapidi, spesso rapidissimi. Le schegge punk di Too Tough To Live (2012) si conficcavano nella pelle, senza arrivare a venti minuti. Se intenso, sudista e sfaccettato è l’impasto roots di Dan Sartain Lives (2010), che con il disco dei primi serpenti continuiamo a trovare il suo punto di miglior dosaggio e più solida maturità espressiva, in Dudesblood (2014), a malapena ventisette minuti di musica, fra ritmi hawaiani, impasti mariachi, e scorribande elettriche, si intravedeva addirittura il sorriso sornione di un Willy De Ville disilluso ma non vinto. È stato Century Plaza (2016) quello che più di ogni altro disco di Sartain ha lasciato perplessi e stupiti: un disco sbagliato più che brutto, un disco che non ci si aspettava, e si stentava non poco a cogliere sotto la sua pelle tutta sintetiche vibrazioni elettro-wave l’anima di questo menestrello del Sud, che sbatteva i pugni sui muri senza riuscire ad uscire.

Arise, Dan Sartain, Arise!

Dan se ne è andato, quattro anni dopo il suo ultimo disco, vinto, ma non domo. Ha lasciato una figlia, che presto o tardi saprà che suo padre era un grande musicista, che cantava l’anima del suo Paese, e non uno sfortunato della vita. Ha lasciato una manciata di canzoni indimenticabili e Arise, Dan Sartain, Arise! è il suo testamento, il surf teso di You Can’t Go Home No More e lo sconsolato caracollare di Dumb Friends due delle sue più belle canzoni. Ma non ce n’è una che falli, in Arise, Dan Sartain, Arise!

Dan Sartain ha inciso le ultime undici canzoni della sua Americana sapendo di dover morire. Ascoltare e riascoltare oggi, partendo dalla fine, il suo poema interrotto, sarà un modo gentile per seppellire con dignità chi, abituato o semplicemente costretto a camminare fra i serpenti, ai serpenti, alla fine, e troppo presto, si è arreso.

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Ha iniziato ad ascoltare musica nel 1984. Clash, Sex Pistols, Who e Bowie fin da subito i grandi amori. Primo concerto visto: Eric Clapton, 5 novembre 1985, ed a seguire migliaia di ascolti: punk, post punk, glam, country rock, i pertugi più oscuri della psichedelia, i freddi meandri del krautrock e del gotico, la suggestione continua dell’american music. Spiccata e coltivata la propensione per l’estremo e finanche per l’informe, selettive e meditate le concessioni al progressive. L’altra metà del cuore è per i manoscritti, la musica antica e l’opera lirica. Tutt’altro che un critico musicale, arriva alla scrittura rock dalla saggistica filologica. Traduce Rimbaud.

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