Roger Waters – The Dark Side of the Moon Redux: la rielaborazione del senso
E se avesse ragione lui? Se far tornare (redux) The Dark Side of the Moon cinquant’anni dopo fosse possibile soltanto rifacendolo così? Roger Waters può essere stato talvolta un megalomane, ma non un incauto. Aver voluto spogliare un disco epocale dalle sonorità universalmente riconosciute ricostruendone il flusso sonoro con sommessa ma irresistibile forza ed eleganza, fissando in un altro tempo e in un’altra dimensione esistenziale il senso delle parole per ravvivarlo, non era forse l’unica maniera per trasformarlo in un altro disco rendendo assolutamente originale il già sentito?
Se è vero che il vivere quotidiano, tema dell’album, ha tratti comuni nelle epoche, soprattutto a distanza di pochi decenni, cambia inesorabilmente la sensibilità delle generazioni rispetto ai suoi aspetti. L’autore ha opportunamente osservato che l’originale registrazione “sembra in qualche modo il lamento di un anziano sulla condizione umana. Ma Dave, Rick, Nick e io eravamo così giovani quando l’abbiamo fatta, e quando guardi il mondo intorno a noi, chiaramente il messaggio non è rimasto impresso. Ecco perché ho iniziato a considerare cosa la saggezza di un ottantenne avrebbe potuto portare a una versione reinventata”.
Il figlio del morto
La storia è nota: The Dark Side of the Moon fu il primo disco dei Pink Floyd di cui Waters, da allora in poi autore tra i più importanti nella storia del rock, scrisse tutti i testi. Il vigoroso bassista, prima, aveva scritto poco. Faceva eccezione il testo della canzone Free Four, per certi versi profetica. Lui lo ripropone, in parte, all’inizio di Dark Side Redux (chiamerò così la sua versione di The Dark Side of the Moon): “I ricordi di un uomo da vecchio /sono le sue azioni da giovane. /Ti trascini nell’oscurità della stanza malata /e ti parli mentre muori. /La vita è un momento breve e caldo. /La morte è un lungo e freddo riposo. /Ottieni la tua possibilità di provare in un batter d’occhio. /Ottant’anni se sei fortunato, o anche meno. /Perciò tutti a bordo per il tour americano /e forse arriverai in classifica. /Ma fa attenzione a come ci vai / e posso dirtelo perché lo so. /Potresti trovare difficile scendere. /Ma tu sei l’angelo della morte /e io sono il figlio del morto. /Fu sepolto come una talpa nella tana di una volpe /e tutti stanno ancora fuggendo”.
Al figlio del morto, nella vicenda umana e artistica dei Pink Floyd, tocca l’ardore della testimonianza. Nel 1973, nonostante incombesse la faccia oscura della luna, c’era l’aspirazione e la speranza di non farsi incastrare in una vita grigia e ordinaria: la presa di coscienza delle parole funzionava un po’ da esorcismo. Il ragazzo di ieri, cinquant’anni dopo, ha raggiunto, con la vecchiaia, il senso compiuto e definitivo delle parole di allora. Le offre, quindi, come bagliori di esperienza, augurandosi forse, chissà, che questa volta, oltre alla buona vita, servano a preparare la buona morte.
L’inutilità dei paragoni e l’analogia con Jim Morrison
Reinventare un disco nella maniera originale ed eloquente scelta da Waters per trascenderne la popolarità iconica rende impossibile il confronto con quello che era. The Dark Side of the Moon fu il portale spazio temporale attraverso cui una giovane band hippie e psichedelica che, per dirla come David Gilmour nella canzone High Hopes, correva affinché il tempo non gli portasse via i sogni, fu riconosciuta come uno dei più grandi gruppi rock. Dark Side Redux è un disco di Roger Waters che rielabora liberamente quella musica riprendendosi le parole di ieri attraverso la tecnica poetica della spoken word che valorizza il tono basso e senile, meditabondo, rendendole parole di oggi.
Non servono paragoni inutili con Leonard Cohen, Lou Reed o Tom Waits: se davvero si vuole trovare un’analogia con qualcuno, funziona, secondo me, quella con Jim Morrison. Precisamente il “vecchio uomo di blues”, come si definiva il poeta e cantante dei Doors, che in occasione del suo ventisettesimo compleanno, l’8 dicembre 1970, registrò la recitazione di alcune sue poesie con l’intenzione di farne un disco, idea concretizzata dai Doors otto anni più tardi, dopo la sua morte, con l’album commemorativo An American Prayer.
Il ragazzo americano invecchiato troppo presto e il combattivo ottuagenario inglese hanno in comune la volontà di credere nella capacità delle parole di smuovere le coscienze di chi le ascolta. Ciò non attraverso la trasmissione di precetti, ma di visioni ed esperienze sensibili. Soprattutto, la loro fiducia è nella capacità di udire, anche interiormente, di coloro che ascoltano.
“Non è tutta buia, vero?”
Ecco quindi che le osservazioni del 1973 sulla nascita, l’alienazione, il tempo, la paura della morte, la follia del denaro, l’inutilità del conflitto rispetto all’importanza della cura, la malattia mentale, il bene e il male di vivere, assumono nel 2023 un ulteriore senso per il solo fatto che i versi del ventinovenne Waters siano ripercorsi dallo stesso uomo infine ottantenne. È come la Voyager 1 che dall’estremità del Sistema solare, a sei miliardi di chilometri dal pianeta da cui era stata lanciata tredici anni prima, scatta alla Terra la celebre foto che nel 1990 la individua come un tenue puntino azzurro nel firmamento: se la sonda l’avesse fatto quando era tecnicamente giovane, la Terra sarebbe stata in primo piano.
Gli inserti aggiuntivi di spoken words ai testi originali, più che per il loro valore letterario, finiscono per delineare il quadro complessivo dell’espressività. La sensazione, anzi, è che Waters si sia parecchio frenato nelle modifiche ritenendo, anche, la rielaborazione “un modo per me di onorare una registrazione di cui Nick, Rick, Dave e io abbiamo tutto il diritto di essere molto orgogliosi”.
Così, dall’iniziale assunzione della responsabilità di testimoniare, si arriva, nelle parole sussurrate alla fine di tutto, al convincimento della continuità della vita oltre la morte: qualcosa che mancava al disco originale, dove la ripresa dell’iniziale battito cardiaco rappresentava solo la continuità della specie.
https://youtu.be/SUVmeYgo1Iw
Il disco di cinquant’anni fa recava, tra una composizione e l’altra che si susseguivano ininterrotte quasi ad anticipare l’idea di ascolto che ci sarebbe stata nei primi anni Ottanta con l’avvento del compact disc audio, degli inserti parlati di vari personaggi gravitanti intorno ai Pink Floyd. La frase conclusiva era del portiere della loro casa discografica, Gerry O’Driscoll, scomparso da alcuni anni: “In realtà non c’è alcun lato oscuro della Luna: è tutta buia”. Oggi Waters gli risponde: “Ti dirò una cosa, Gerry, vecchio mio. Non è tutta buia, vero?”.
Roger Waters – The Dark Side of the Moon Redux: un’aggiunta geniale all’album del 1973
Dark Side Redux, parole dell’autore, “non sostituisce l’originale che, ovviamente, è insostituibile”. È una banalità ma, a scanso di equivoci dopo quarant’anni di scazzi con Gilmour, detentore legalmente del nome Pink Floyd, era bene dirla. Il disco, che nella versione long playing doppio ha una composizione aggiuntiva di tredici minuti sulla sua realizzazione, è stato prodotto da Gus Seyffert che, ha detto Waters, lo ha convinto a cantare tutte le parti vocali. È lui, inoltre, che suona il basso nell’album. A eccezione di Any Color You Like in cui è Roger medesimo a impugnare l’antico strumento (“Ti dispiace se ci provo?” ha detto quando è stato il momento), oltre al classico sintetizzatore analogico VCS3 le cui folate psichedeliche sono un marchio di fabbrica di The Dark Side of the Moon.
Gli altri musicisti sono Jonathan Wilson (chitarre), Joey Waronker (batteria), Johnny Shepherd (organo), Via Mardot (theremin), Azniv Korkejian (voce), Gabe Noel (archi), Jon Carin (tastiere), Robert Walter (pianoforte). La copertina è un primo piano dell’occhio di Boris, un cane Rottweiler bianco maculato, protagonista unico dell’inquietante video di Money, che vive a New York con il suo padrone. Nella pupilla spicca, sfocato, l’inconfondibile prisma su sfondo nero della copertina originale. La foto è stata scattata da Kate Izor, fotografa ufficiale di Waters e moglie di Sean Evans, da tempo suo direttore creativo.
Un lavoro del genere, comunque notevole, in certi passaggi splendido, non si presta a un giudizio ordinario. Per avere un’idea di quanto vale, quindi, la cosa più sensata, ritengo, è affidarsi alla franchezza equilibrata dell’unico che nei Pink Floyd c’è sempre stato, che ne ha raccontato la storia meglio di qualunque biografo e che si è sempre dimostrato affidabile nelle considerazioni: Nick Mason. «Assolutamente geniale. Non è assolutamente qualcosa che possa intaccare l’originale. È un’interessante aggiunta»: questo il responso.
Qualcosa mi dice che anche a David Gilmour è piaciuto. Ma non credo lo ammetterà mai.