In Make It Better gli a/lpaca illustrano un mondo alieno eppure attraente.

Il ritmo frenetico ed ossessivo di Beat Club, il brano di apertura di Make It Better, ci introduce in un immaginario locale da (s)ballo, nel quale si consuma una sorta di rituale liberatorio e salvifico, forte di richiami ancestrali ravvivati da una freschezza, un’energia e un’urgenza adolescenziali. È facile immaginare che gli a/lpaca siano figli della noia della vita nelle nostre province, ma nulla tradisce le origini mantovane dei quattro giovanissimi musicisti giacché il disco possiede ambizioni e respiro internazionali. Per produrlo in tutti i formati possibili si sono infatti mobilitate tre diverse etichette discografiche da Italia, Inghilterra e Germania.
A cosa ci fanno pensare gli a/lpaca di Make It Better?
Un battito ipnotico, rapido e incessante attraversa tutto l’album, un 4/4 implacabile che richiama il motorik di gruppi kraut quali Neu! e Can, il drumming primitivo di Moe Tucker, lo space rock monolitico degli Hawkwind, il sound minimale dei Suicide, la psichedelia aliena dei Chrome e quella moderna ed abrasiva di Thee Oh Sees e King Gizzard & the Lizard Wizard. E non va ovviamente dimenticata la new wave nevrotica di Devo e Killing Joke. Gli a/lpaca hanno compilato una playlist su Spotify nella quale sono presentati tutti gli stili che hanno influenzato il loro suono, ingredienti che, pestati e amalgamati, hanno dato vita a questa pozione dal gusto decisamente acido. Una pozione che si consiglia di assaporare a volume molto alto. Il feroce assalto sonoro si sposa però a un’estrema cura nella scelta di suoni anche piacevolmente retrò.
Make It Better brano per brano
All’attacco di Beat Club segue il lungo garage rock incalzante ed accattivante di Make It Better, solo che il garage nel quale è suonato potrebbe stare su un altro pianeta, sferzato da venti radioattivi e frequenze cosmiche. Inept è una danza cupa e monotona, sostenuta da un selvaggio ritmo tribale; l’organo è spettrale, la voce, in questo come negli altri brani, è quella di un automa. Hypnosis è claustrofobica e assordante. Slave Antenna Array e Citadel suonano come filastrocche paranoiche per bambini mutanti. In Chameleon il tempo sfiora il parossismo.
I am Kevin Ayers è una dedica all’adorabile ed indimenticato dandy di Canterbury, ci sono i primi Soft Machine folli e dadaisti, quelli delle lunghe jam session drogate nelle notti del leggendario UFO club, virate qui verso un oscuro post punk, la voce è profonda e sinistra come quella di Ayers in Song from the Bottom of the Well. La lunga e conclusiva Lokomotiv è imperniata su un tema quasi surf, molto minaccioso, che cresce progressivamente e vertiginosamente d’intensità.
Auspicio finale
Una tale orgia dionisiaca di suoni merita di tornare a essere proposta dal vivo; mi auguro davvero che tornino presto le condizioni perché il Beat Club degli a/lpaca sia ancora un luogo reale, e non solo immaginario, di divertimento ed aggregazione. Cose di cui sentiamo un gran bisogno.
(1) La canzone si trova in Whatevershebringswesing, terzo album di Kevin Ayers (1972).
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