Beyoncé – Cowboy Carter

Beyoncé, al secondo atto della trilogia, diviene Cowboy Carter.

Renaissance (2020) è stato il primo atto di una trilogia volta a recuperare i generi nei quali la presenza afroamericana è stata importante, ma non (a volte non più) riconosciuta: se lì era la musica house, con Cowboy Carter Beyoncé si addentra in un vero campo minato. Se n’era accorta ai Country Music Awards del 2016, quando aveva interpretato Daddy Lessons da Lemonade con le Chicks (allora Dixie) ed era stata criticata dai ‘puristi’ (leggi ‘razzisti’) in quanto reputata ‘non appartenente’ alla tradizione della country music.

Donna dal carattere di ferro, Beyoncé non ha dimenticato e il secondo atto della trilogia vede la signora Carter in versione Cowboy a partire dalla copertina: su Renaissance era il nude look e un cavallo mirrorball, qui abbiamo una regina del rodeo con i colori della bandiera americana (nell’immagine scattata dal fotografo texano Blair Caldwell). “Mio padre è dell’Alabama, mia madre della Louisiana”, cantava già in Formation, e qui Beyoncé prende la parola per rivendicare il ruolo di afroamericani e nativi non soltanto nella musica country, ma più in generale nella cultura sudista che ha preferito riscrivere la sua storia cancellandoli.

‘This ain’t a Country album. This is a “Beyoncé” album’

E tuttavia, come dice l’annuncio dell’artista su Instagram, ‘Questo non è un album country. Questo è un album di Beyoncé’. Il che è vero anche più di quanto non fosse per Renaissance, nel quale house e disco prevalevano per un buon 90%. In Cowboy Carter il country c’è, ma mescolato con altri generi musicali, molti dei quali già toccati da Beyoncé nel corso della sua carriera.

I primi due singoli che hanno fatto da apripista sono indicativi. Texas Hold ‘Em ha debuttato in cima alla classifica Hot Country Songs, rendendo Beyoncé la prima donna di colore con una canzone country al numero uno nella storia di Billboard. Tuttavia, la maggior parte delle radio country hanno rifiutato di trasmetterlo. Il pezzo è un ibrido fra country, con tanto di banjo suonato da Rhiannon Giddens, ma ha innegabili influenze hip-hop (Hit-Boy nei credits) e pop: è abbastanza appropriato per il genere? E davvero importa qualcosa? Ecco, il primo successo dell’operazione sta nell’aver sottolineato quanto questo bisogno di creare confini e attribuire etichette in nome della purezza razziale sia ancora sentito come necessario.

Il secondo singolo è musicalmente superiore: 16 Carriages è autobiografica e parla della perdita della giovinezza e dell’innocenza dopo aver trascorso una vita sulla strada dall’età di 15 anni, cioè dagli esordi delle Destiny’s Child quando ancora non si chiamavano così. La musica è una rivisitazione eccellente delle work songs, con tanto di ritmica e slide, e l’interpretazione è fantastica, come peraltro in tutto il disco. Il modo in cui la vicenda personale si conclude sfociando in quella collettiva parlando di ‘legacy’ rende davvero l’idea di tutto il disco.

Blackbird

A sorpresa c’è una cover di Blackbird dei Beatles, canzone scritta da Paul McCartney e ispirata dalle tensioni razziali nel sud degli Stati Uniti. Beyoncé chiama a interpretarla artiste country di colore come la pioniera Linda Martell, Brittney Spencer, Reyna Roberts, Tiera Kennedy e Tanner Adell. Linda Martell è stata la prima artista di colore a salire sul palco del Grand Ole Opry, ma ha avuto una carriera difficile e inseguita da epiteti razziali; qui punteggia il disco con diversi interventi.

Dolly Parton, Jolene e la sorprendente Daughter

Willie Nelson e Dolly Parton svolgono lo stesso ruolo di Martell in una immaginaria country radio station che accompagna tutto il disco. Dolly Parton, soprattutto, introduce la cover attesa e annunciata di Jolene. Se la musica è quella, il testo è fortemente rimaneggiato. Qui Jolene non prega la rivale di non prenderle il suo uomo, ma minaccia rappresaglie. Diciamolo, dopo decenni era ora che qualcuna si incazzasse un po’ con Jolene, e Beyoncé suona credibilissima nel ruolo.

Il tema continua nella canzone successiva, Daughter, una delle migliori del disco, lento arpeggio di chitarra spaghetti western nel quale Beyoncé si rivolge a un/a rivale, immaginata all’inizio della canzone ferita o morta, per proseguire sulla bipolarità del dover apparire bella e sorridente, pur albergando sentimenti e pensieri oscuri; Daughter ritorna anche sul tema dei difficili rapporti con il padre, ed ex manager, Mathew Knowles: “Continuano a dire che non sono affatto come mio padre / Ma io sono la cosa più lontana dai chierichetti e dagli altari / Se mi ostacoli, sono proprio come mio padre / Sono più fredda delle acque del Titanic.” La canzone interpola la celebre aria Caro Mio Ben di Tommaso Giordani, pure cantata da Beyoncé.

La varietà di Cowboy Carter

La successiva, breve Spaghetti, pure riprende temi western, ma virati all’hip-hop, con Beyoncé che eccelle anche come rapper – peraltro cosa ormai nota. Così come l’r’n’b, ossia il genere al quale più facilmente associamo Beyoncé, l’hip-hop non è assente da Cowboy Carter: verso la fine Tyrant, introdotta da Dolly Parton, è un ottimo esempio di entrambi. Flamenco è una ballata soul sebbene con una semplice base di chitarra, peccato che duri meno di due minuti perché è semplicemente perfetta. Riverdance incorpora un arpeggio da chitarra country per un brano chiaramente r’n’b, sfociando poi nella sognante II Hands II Heaven. Bodyguard è un apparentemente incongruo yacht rock, ma suona comunque benissimo, ed è inserito al centro accanto a Jolene e Daughter perché tratta lo stesso tema.

Molti gli ospiti, come già detto, e anche i veri e propri duetti: come II Most Wanted con Miley Cyrus, due belle voci molto diverse fra loro a confronto, con risultati buoni senza far gridare al miracolo; migliore Levii’s Jeans con Post Malone. Si può quasi considerare una collaborazione la scatenata Ya Ya, che suona come un omaggio a Tina Turner, e interpola These Boots Are Made for Walkin’ e Good Vibrations.

In attesa dell’atto III.

American Requiem e Amen aprono e sigillano il disco, richiamandosi a vicenda, e sottolineandone il carattere di concept. Come si sarà capito, con Cowboy Carter Beyoncé azzarda ma non sbaglia la mossa. Sfiorando gli 80 minuti, chiaramente ha i suoi momenti meno forti, ma è veramente una cavalcata attraverso generi e atmosfere, realizzata da una Beyoncé che tiene le redini con totale padronanza. L’atto III sarà la sfida al rock, il genere più fintamente inclusivo che si conosca? Non vedo l’ora.

Beyoncé – Cowboy Carter
9 Voto Redattore

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Mi piace la musica senza confini di genere e ha sempre fatto parte della mia vita. La foto del profilo dice da dove sono partita e le origini non si dimenticano; oggi ascolto molto hip-hop e sono curiosa verso tutte le nuove tendenze. Condividere gli ascolti con gli altri è fondamentale: per questo ho fondato TomTomRock.

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