Decimo disco per Björk: Fossora.
Non sono tanti gli artisti che possono rivendicare una carriera come quella di Björk, che con Fossora arriva al suo decimo disco, se non si conta l’omonimo esordio di cantante-bambina nel lontano 1977. Forse la sua storia musicale può essere divisa in due parti: una prima a cavallo fra anni 90 e inizi 00, che l’ha promossa regina di un pop d’avanguardia nel quale non aveva rivali, marcato da ottimi dischi e da alcune canzoni veramente splendide. Poi, dopo il Greatest Hits del 2002, che seguiva Vespertine, la musica di Björk ha preso una piega sempre meno pop, sempre più calata nell’avanguardia. Con risultati alterni, che hanno visto una discesa del suo profilo commerciale, ma che ne hanno fatto un’icona della musica fuori dagli schemi. Gli ultimi due album, Vulnicura e la collaborazione con Arca, Utopia, pur navigando in territori difficili, mantenevano comunque, se non altro a tratti, un legame con la forma-canzone: ricordo almeno Black Lake sul primo e Blissing Me sul secondo.
Un disco profondamente islandese
Fossora segue la riga di titoli al femminile di questi ultimi anni: dovrebbe voler dire “colei che scava”, distorcendo il latino fossorius (scavatore). E in effetti questo è un disco nel quale Björk scava nelle sue radici familiari, dedicando due titoli alla madre Hildur Rúna Hauksdóttir morta nel 2018, una figura di spicco dell’ambientalismo nella piccola Islanda: si tratta di Sorrowful Soil e Ancestress. Inoltre, entrambi i due figli di Björk, Sindri e Ísadóra, compaiono in Fossora, e proprio nei due pezzi appena citati. Insomma è un album dedicato alla famiglia, alla memoria, al passare delle generazioni, e sono riflessioni più che normali per un’artista che si avvia verso i 60. È anche un album molto personale: Björk produce interamente, ci sono pochi ospiti, fra i quali il più influente è l’indonesiano Kasimyn, metà del duo gabber-house Modus Operandi. Alcuni suoni della ritmica possono rinviare al genere, ma non molto di più. Per il resto la tessitura armonica è data da fiati e archi arrangiati da Björk e registrati, a chiudere il cerchio, nella sua Islanda.
Qualcosa non funziona
Sebbene Fossora stia dando a Björk, come peraltro accade spesso, il plauso della critica, qualcosa nel disco funziona poco. La melodia del canto segue costantemente linee sue proprie, che paiono giustapposte alla musica senza che vi sia un reale incontro. Fanno eccezione giusto alcuni pezzi, fra i quali Freefall, che è infatti il momento che preferisco, con un crescendo centrale veramente bello. In un certo senso, se presi separatamente, musica e voce funzionano, solo che faticano a trovarsi. Inutile dire che l’esperienza di Björk non può che indicare che questa è stata la sua precisa volontà e proprio per rispetto verso un’artista che stimo ho dedicato tempo e ascolti a Fossora. Altrove, come in Ovule, sembra che la canzone sia sempre lì lì per spiccare il volo, ma non parte mai veramente, e lascia con l’idea di una bellezza incompiuta. Il primo singolo Atopos, che apre il disco, è un altro dei momenti riusciti meglio. Resto insomma con un senso di frustrazione dinanzi a Fossora, stretta tra la voglia di riprovarci e il timore di annoiarmi.
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