Bob Dylan – Shadow Kingdom

Dopo il film, ecco la colonna sonora: Bob Dylan – Shadow Kingdom.

Non è rimasto molto da dire su Bob Dylan. Non ci sono quasi più aggettivi per descriverlo. E non certo perché non riesca ancora oggi, a ottantadue anni appena compiuti, a lasciare quantomeno meravigliati dalle sue infinite possibilità musicali. Ma soltanto perché ogni discorso su Dylan pare sempre scontrarsi con tutte le innumerevoli maschere che ha indossato, le stesse che probabilmente non ci daranno mai la possibilità di sapere davvero, alla fine, chi è Bob Dylan. E allora, ecco che esce quasi all’improvviso Shadow Kingdom (Columbia), cinquantaquattro minuti di musica senza interruzioni, per un densissimo nastro riavvolto sul passato che non è nostalgia, ma volontà ancora di muoversi controcorrente, in bianco e nero, verso un profilo sempre diverso di canzone popolare. Si tratta della colonna sonora del film omonimo che Dylan rese disponibile in streaming nel luglio 2021, quando, a causa della pandemia, anche il suo Never Ending Tour fu costretto a fermarsi.

Gli artisti e le maschere

La maschera era quella indossata da una band di attori che riprendevano alcuni dei suoi vecchi brani per risuonarli dal vivo. Una maschera, quella sì, che avevamo ormai imparato a conoscere. L’altra, quella vera, nascondeva il fatto che quei brani, che sembravano suonati dal vivo, invece erano stati registrati in studio da una band che vedeva Don Was al contrabbasso, T-Bone Burnett alla chitarra, Greg Leisz alla pedal steel e mandolino, ma soprattutto Jeff Taylor alla fisarmonica. E chi sulle maschere aveva sempre scommesso, nel film, evidentemente, restava a viso scoperto.

Molti classici riarrangiati da Bob Dylan per Shadow Kingdom

In questi stranianti cambi di prospettiva, i brani, o meglio la loro rielaborazione, suonano vivacissimi, in un’atmosfera da bar del porto, certamente suggestionata dallo strepitoso bianco e nero del film. Non c’è batteria, non ci sono percussioni, e tuttavia le cadenze e la ritmica del contrabasso di Don Was quasi non ne fanno sentire la mancanza. Le chitarre sembrano finissimi rami intrecciati a rischio crollo, nella loro smilza amplificazione. C’è anche una strepitosa fisarmonica che dialoga senza imbarazzo con la voce di Dylan, che nessuna maschera riuscirà a schermare. Roca, spigolosa, disperata. Blues. Basta solo sentire il trittico d’apertura: When I Paint My Masterpiece; Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine); Queen Jane Approximately. Già potrebbe bastare. Ma poi arriva la versione quasi recitata di Tombstone Blues. E ti sembra di averlo capito, Dylan. O non sarà ancora un altro Dylan che canta?

Ritorno a Rough And Rowdy Ways

Quando uscì Rough And Rowdy Ways mi sembrò di averlo sentito da sempre. Con alti e bassi, senza dubbio. Suoi e miei. L’avevo perso e ritrovato molte volte. Ma non lo sentivo così dai primi due versi di Love Sick: «I’m walking, / Through streets that are dead». Dall’uscita di Time Out Of Mind era stato via tanto, l’avevamo sentito, ma l’avevamo sentito male. E alla fine era tornato con Rough And Rowdy Ways. Anche oggi, eccolo qui di nuovo. Mentre sembra lanciare un’altra maschera in aria, entrare in un bar male illuminato e dal bancone di legno consumato raccontarci ancora un’altra storia. Non importa quanto sia vera. È la storia di Bob Dylan.

Bob Dylan – Shadow Kingdom
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Sono nato quando uscivano Darkness on the Edge of Town, Outlandos D'Amour, Some girls e Blue Valentine. Quasi a voler mostrarmi la strada. Ora leggo, scrivo, suono e colleziono vinili.

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