L’omaggio a Taylor Hawkins porta i Foo Fighters a comporre uno dei loro dischi migliori: But Here We Are.
Fino al nuovissimo But Here We Are, i Foo Fighters sembravano ormai destinati a una carriera fatta di album accettabili, al limite divertenti, e di tournée di successo per un pubblico che ama il rock allo stesso tempo melodico ed energetico. Nel 2021 avevano sfornato un discreto Medicine At Midnight e si erano imbarcati nel nuovo tour durante il quale, però, si è verificata una tragedia: mentre erano in attesa di esibirsi a Bogotà, il 25 marzo dello scorso anno, è morto all’improvviso il batterista Taylor Hawkins. Così, dopo due concerti in suo onore (uno a Londra uno a Los Angeles) dalla forte carica emotiva, con tantissimi ospiti e con, alla batteria il giovane figlio di Hawkins, Shane, a suonare I’ll Stick Around e My Hero, i Foo Fighters sono tornati in studio, hanno composto e anche prodotto, con il solo aiuto di Greg Kurstin, But Here We Are, con Dave Grohl tornato batterista così com’era nato con i Nirvana.
Un disco sobrio ma potente
E il prodotto ne risente, in positivo. But Here We Are è un disco sobrio che rinvia all’esordio omonimo della band (nel lontano 1995) e qui e lì persino al grunge (ascoltare Nothing at All per credere) che li ha generati. Certo, non più suonato da ventenni fuori di testa, bensì da maturi professionisti con famiglia e anni di successi alle spalle, ancora però con la capacità di emozionarsi e a tratti emozionare. Il richiamo agli amici che non ci sono più è come si può immaginare costante: dalla bella Hearing Voices alla lenta Rest, che chiude il disco. Dave Grohl non è mai stato particolarmente noto per i testi delle canzoni, ma Rest è un’elegia efficace per l’amico morto così precocemente.
But Here We Are, affermano i Foo Fighters, e dimostrano di meritarselo
Dall’iniziale Rescue alla successiva Under You alla già citata Hearing Voices, i tre pezzi che aprono But Here We Are, si comprende che i Foo Fighters per l’occasione hanno deciso di scrollarsi di dosso i difetti degli ultimi dischi, mai pessimi, ma con una certa aria da pilota automatico.
https://youtu.be/8HoKlqa5FCE
Qui tutto è più profondo, si vede l’impegno profuso per far bene e per rendere quel ‘ma siamo ancora qui’ ricco di significato. Sui 48 minuti qualche passaggio a vuoto c’è, così come, ovviamente, c’è una inevitabile aria di già sentito. D’altra parte, chi penserebbe di accostarsi a musicisti rock con carriere pluridecennali alle spalle per ascoltare qualcosa di nuovo o di rivoluzionario? Qui di nuovo ci sono dieci composizioni, molte delle quali di alto livello, e nell’insieme un disco che ci fa ritrovare una band, come talvolta succede, rivivificata dalla tragedia della morte.
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