Bob Dylan The Complete Budokan 1978

Centoquattordici concerti intorno al mondo: Bob Dylan – The Complete Budokan 1978.

Bob Dylan si è conquistato il diritto di fare, artisticamente, quello che gli pare, senza scadere nella considerazione dei media e ben prima degli attuali quasi ottantatré anni, avendo superato delle esperienze di severo ostracismo. Due passaggi obbligati furono la tournée internazionale del 1966, quando fece digerire il suono elettrico rock blues ai nostalgici del menestrello folk, e quella del 1978 che lo portò, tra Europa, Asia, Oceania e Nord America, a suonare, di fronte a circa due milioni di appassionati, versioni stravolte e irriconoscibili di canzoni sacre per molti di loro.

In quei dodici anni l’impero della musica aveva metabolizzato e riorganizzato commercialmente la carica eversiva e creativa del rock. Sua Bobbità, con le casse vuote dopo il doloroso divorzio da Sara Lowndes, i cinquantasette concerti della Rolling Thunder Revue e il catastrofico, enigmatico film Renaldo and Clara, si rivolse a Jerry Weintraub, l’uomo che aveva rilanciato dal vivo Elvis e Frank Sinatra. Rolling Stone riporta quello che Weintraub disse a Dylan raccontato dal bassista Rob Stoner: «Se vuoi metterti il cuore in pace, devi fare una di queste tournée collaudate e redditizie. Vai in giro per un anno, ti fai un culo così e poi torni a fare quello che ti pare».

Detto, fatto. Abbandonando l’aria da guerrigliero difensore dei torti della stagione di Hurricane, la canzone dedicata al pugile Rubin Carter condannato per omicidio in un processo dubbio, e vestiti i panni del professionista del palcoscenico, Dylan si sciroppò centoquattordici concerti in giro per il mondo rielaborando talvolta pacchianamente, con cori e fiati, un repertorio che fino ad allora, prescindendo da gusti e critiche, aveva mantenuto un suono coerente con il senso.

Bob Dylan at Budokan: il disco peggiore

All’epoca mal gliene incolse. Bob Dylan at Budokan, il doppio album che i produttori locali, con certosina efficienza nipponica, trassero dal quarto e dal quinto concerto nella “sala della gloria delle arti marziali giapponesi” (Budokan, appunto) per il mercato interno, ricombinava ventidue canzoni riutilizzando al meglio lo spazio delle quattro facciate. Fu pubblicato in Giappone il 21 agosto 1978 e nello stesso anno in Australia. Otto mesi dopo la Columbia, viste le richieste, si convinse a fare altrettanto nel resto del pianeta.

L'originale Bob Dylan at Budokan del 1978

Fu, per quanto riguardò le critiche dei critici, il segnale che fece scatenare l’inferno. Negli Stati Uniti si sprecarono il sarcasmo e l’invettiva: in Europa andò un po’ meglio. All’epoca, però, con quell’accostamento alla musica di Las Vegas per sottintenderne la deriva commerciale, il disco fu bollato come il peggiore nella discografia dylaniana. Era dietro l’angolo, ma di là da venire, la sbornia da cristiano rinato con conseguenti derive discografiche prima del recupero fiero dell’identità ebraica nel 1983 con il notevole “Infidels”, ventiduesimo album in studio.

Il senno di poi

La pubblicazione del box set The Complete Budokan 1978, con i due concerti del 28 febbraio e del 1 marzo distribuiti equamente in quattro cd, rimette le cose in ordine. Restaurate e remixate le ventidue canzoni originali più le trentasei in scaletta, ma restate fuori dal doppio album originario, le esibizioni scorrono nella loro sequenza esatta e integrale.

Bob Dylan at Budokan fu il primo disco di Bob Dylan che ascoltai da ragazzo. A suo tempo mi piacque, ma sapevo poco o nulla del suo autore. Tanto tempo dopo capisco lo sconcerto, e magari l’indignazione, di chi ascoltò Knockin’ on the Heaven’s Door avendo in mente la ballata western originale o, peggio ancora, l’irritazione per Blowing in the Wind con i cori gospel. Ritrovo però, anche, il piacere di riascoltare Shelter from the Storm e One More Cup of Coffee, o I Threw It All Away, in arrangiamenti che avrei scoperto inusuali rispetto agli originari, ma non meno accattivanti.

La verità è che Dylan cercava delle sonorità che incontrassero in maniera trasversale il gusto della maggior parte della gente, e lo faceva con volontà impeccabile sul piano professionale anche quando il risultato era dei più discutibili. Non è un caso se, a molti anni dalla stagione del rock impegnato, quegli umori musicali trovano un senso, un valore, un gusto e una collocazione nello sterminato e complicato panorama storico delle sue traiettorie.

Le Bootleg Series non c’entrano

In definitiva, gli otto spettacoli alla Nippon Budokan Hall di Tokio fecero da apripista a una tournée il cui scopo non era l’ambizione artistica ed espressiva ma, più prosaicamente, la ricollocazione professionale di Sua Bobbità in tempi angusti e grami. Per questo egli scelse di farsi accompagnare non dal “suono al mercurio” degli Hawks di Robbie Robertson che sarebbero diventati The Band, né dai grandi artisti della Rolling Thunder Revue, bensì da consolidati professionisti capaci di rielaborare le vecchie canzoni non soltanto liberandone l’autore, come osservò già a suo tempo il critico Janet Maslin, ma arricchendone gli arrangiamenti: e pazienza se qualcuno veniva male. Dylan alla chitarra ritmica e all’armonica, canta ispirato. Insieme a lui suonano Billy Cross (chitarra solista), Ian Wallace (batteria: si, quello dei King Crimson), Alan Pasqua (tastiere), Rob Stoner (basso, cori), Steven Soles (chitarra ritmica acustica, cori), David Mansfield (pedal steel, violino, mandolino, dobro), Steve Douglas (fiati), Bobbye Hall (percussioni), Helena Springs, Jo Ann Harris e Debi Dye (cori).

Contrariamente a quello che si era pensato, che è stato talvolta scritto e che, per certi versi, sarebbe stato logico, The Complete Budokan 1978 è un cofanetto a sé stante nella discografia dal vivo di Bob Dylan iniziata nel 1974 con il doppio album Before the Flood. Non è inserito, quindi, nella splendida rassegna antologica delle Bootleg Series che è ferma, per il momento, al volume diciassette, cioè Fragments: Time Out of Mind Sessions (1996-1997). Il box, di per sé accattivante, è arricchito da memorabilia (poster, stampe, biglietti, eccetera) che confermano come il Dylan di quella stagione interlocutoria cercasse la popolarità piuttosto che l’immortalità. Quella, in attesa del tardivo Nobel da vecchio, era già in cassaforte.

Bob Dylan - The Complete Budokan 1978
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Pietro Andrea Annicelli è nato il giorno in cui Paul McCartney, a San Francisco, fece ascoltare Sergeant Pepper’s ai Jefferson Airplane. S’interessa di storia del pop e del rock, ascolta buona musica, gli piacciono le cose curiose.

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