La storia dei Cabaret Voltaire approda a Shadow of Fear.
Quando meno te lo aspetti ecco riapparire il moniker Cabaret Voltaire, nome che evoca in quelli già sulla cinquantina andante un periodo inossidabilmente ferente nostalgie, spesso più potenti della realtà storica medesima.
Nati come trio con velleità industrial burroughsiane veementi soprattutto nei loro collage sonori della prima ora, divenuti duo in casa Some Bizzare (Stevo, il manager, aveva in catalogo, tra gli altri, Soft Cell dall’inizio, Psychic Tv, The The…mica roba di ridere) e latori di una elettronica orientata verso una dance snobbina ma intelligente, fautori delle prima contaminazioni trance-dub con pesanti riferimenti alla club culture degli anni acidi, improvvisamente , dopo stanche produzioni, si sciolsero e intrapresero carriere solistie for fans only. Mi riferisco a Stephen Mallinder ora nei Wranglers che portano avanti un discorso para sheffieldiano, e Richard H.Kirk, con quel cognome che da solo è un’Enterprise, che invece, celandosi dietro sigle di diversa fatture, proseguì verso le oscure origini dell’elettronica.
Un duo a metà
Questa intro synthetica per celebrare il ritorno dei Cabaret Voltaire, anzi del, poiché la formazione è, ad oggi, composta dal solo Kirk. Il quale, a mio avviso, credo sia stato coerentissimo con la propria missione ma, impossessandosi del nome primevo, abbia anche colto l’opportunità di allargare la schiera dei suoi seguaci della fase celtante o omonima, per vedere, neanche troppo di nascosto, l’effetto che fa.
Inutile dire che il quanto mai contemporaneo titolo e gli otto brani che compongono il nuovo lavoro siano la matematicamente logica prosecuzione di un discorso iniziato più di quarant’anni fa e di questo se ne coglie il pregio per alcuni e il difetto per gli altri. Inutile disaminare gli otto brani in quanto compongo un corpus enciclopedico della sottoculturale industriale da riversare sulle orecchie senilizzate di chi li ascolterà per curiosità o ricerca del passato. Si torna al tanto amato cut up, si spinge il pedale sulla reiterazione di riff synth/copati, si ricicla qualcosa dal recente passato solistico e, probabilmente, si celebra anche una italica serata in quel di Vasto, nel brano omonimo.
Cabaret Voltaire resta un gran bel nome, Shadow of Fear lo dimostra
Si astengano i cultori del periodo Crackdown o quelli che si fecero due balletti su Sensoria. Quel periodo è bello che sepolto sia dalla scissione che dalla contemporaneità. Shadow of Fear è infatti colonna sonora disturbante della nostra attualità che diventa obsoleta, ogni proclama quotidiano la modifica. È l’iperventilazione di un suono che pare uscire da strumenti dotati di filtro FFP2, è intrattenimento attraverso, a tratti, il dolore come il famoso motto industrial citava. Interpreto questo album come fase transitoria verso un corso ancora più seminale e di nicchia, un degno compromesso tra un passato che pare essere lontanissimo e un futuro instabile come il mercurio versato su una mano, e lo premio per la furbizia nell’uso del moniker e coerenza nei suoni.
E poi Cabaret Voltaire rimane uno dei nomi più belli della storia della musica.
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