Dean Wareham torna solista con I Have Nothing to Say to the Mayor of L.A.
A fine anni ‘80 Dean Wareham (nato in Nuova Zelanda, newyorkese dal 1977) è nei Galaxie 500, trio dream-pop prima che il termine esista. I Galaxies si sciolgono nel ’91 dopodiché Wareham forma i Luna, sempre trasognati ma appena più rock, e poi incide come Dean & Britta (insieme alla moglie Britta Phillips) in chiave quasi retro-pop. Di tanto in tanto c’è stato anche un Wareham solista che si ripresenta oggi con I Have Nothing To Say to the Mayor of L.A. (Double Feature), uno dei lavori più belli di una ormai lunga carriera che in qualche momento ha rischiato il manierismo.
Un Dean Wareham fra delicatezza e laconicità
L’artista odierno ha i modi delicati di sempre, ma è anche centrato, incisivo, nitido come non mai. Molto merito va al produttore Jason Quever che ha scelto una strumentazione efficace e di pochi fronzoli e un ruolo di maggior presenza per la voce che, come vedremo, ha cose importanti da dire. Non troppo duttile, il cantato di Wareham è comunque abile bilanciamento di laconicità e dolcezza facendo talora pensare a un Lou Reed o anche a un Robert Forster trasferiti tra le palme della California. D’altronde, quando si hanno a disposizione linee melodiche azzurro cielo (con primi accenni di tramonto, ça va sans dire) come The Past Is Our Plaything, As Much As It Was Worth o Robin & Richard basta farvi scorrere sopra il canto perché tutto funzioni a meraviglia (lo dimostra anche Duchess, dal repertorio di un ‘vocione’ della fatta di Scott Walker).
I testi di I Have Nothing to Say to the Mayor of L.A.
Allo stesso modo funziona bene la vis politica di molti testi in cui le difficoltà dell’oggi vengono raccontate attraverso figure emblematiche del passato – orgogliose ma sofferenti – come Eleanor Marx (figlia di Karl e attivista politica, morta suicida a 43 anni) o l’attore John Garfield, che vide la sua carriera troncata dal feroce Comitato per le Attività Antiamericane. L’idea viene trasportata nel presente dalla conclusiva Why Are We in Vietnam?, fusione di personale e politico in una sequenza di interrogativi che si aprono così: “Perché siamo a Tripoli? Perché siamo a Baghdad? Perché sono bloccato a Echo Park?”.
Un finale amaro per un disco di grande dolcezza, ma questo richiedono i tempi.
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