Un altro disco del lockdown: Devendra Banhart & Noah Georgeson – Refuge.
Refuge è il primo titolo di una nuova collana della Dead Oceans intitolata Secretly Group Friends Of e per l’occasione Devendra Banhart & Noah Georgeson, che da anni collaborano spesso insieme, hanno composto e registrato i brani di Refuge indipendentemente l’uno dall’altro, eravamo in pieno lockdown, per poi assemblarli insieme. Alle composizioni hanno partecipato altri musicisti, tutti con i loro strumenti acustici a eccezione dei synth di Jeremy Harris dei Vetiver: Mary Lattimore all’arpa, Nicole Lawrence alla pedal steel guitar, Tyler Cash al piano, Todd Dahlhoff al basso e David Ralick. Si tratta di un album fondamentalmente strumentale che propone un ambient con venature folk e psichedeliche. Pur essendo stato registrato durante il lockdown le musiche riflettono solo parzialmente del clima negativo e opprimente che ha costellato quegli interminabili mesi. Ma il tono è generalmente quieto, rilassato ispirato alla meditazione e alla filosofia indiana. Non a caso due tracce sono ascoltabili esclusivamente sull’app Calm dedicata al sonno e alla meditazione.
Un album meditativo
E in effetti se paragonato a opere come il recente Dishee di Hugo Race, anch’esso realizzato durante il lockdown e nel quale si respira un’aria inquieta, perfino opprimente, Refuge appare più orientato verso la new age e non è un caso che Banhart abbia voluto accanto a sé diversi musicisti come lui praticanti il buddhismo e la meditazione. Ed è proprio questo clima così ovattato, che vuol evitare qualunque contraddizione, che ti avvolge in un misticismo fin troppo sonnolento a non convincere del tutto, a farti sospettare che spesso questa sia soltanto musica da sottofondo buona per una seduta di meditazione in qualche lussuoso ambiente californiano. È il caso di tracce catatoniche come Horn in Deep Night o Rise from Your Wave.
Devendra Banhart & Noah Georgeson – Refuge e le tentazioni new age
Detto questo non si tratta nel complesso di un disco brutto o non riuscito. Ciò che non mi convince è la filosofia di fondo che lo sorregge, ma per lo stesso motivo piacerà certamente a chi è vicino alle varie sfaccettature dell’universo new age e troverà nelle tracce del disco un rifugio dove ripararsi per qualche momento dai patemi dell’esistente.
Fra i passaggi più riusciti intanto Asura Cave, fra field recordings di cerimonie buddhiste e un mantra recitato da Neten Chokling Rinpoche, maestro dello stesso Banhart. In a Cistern, in cui arpa e pedal steel disegnano suggestivi panorami sognanti. A Cat dove i synth fluttuanti creano una certa tensione che ogni tanto si tinge di nero. For Em che inizia con le note solitarie del piano, strumento che è un po’ il filo conduttore del disco, cui si aggiungono archi e fiati colorando il brano di venature malinconiche.
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