Recensione: Hugo Race – Dishee

Hugo Race esorcizza i suoi demoni con Dishee.

A pochi mesi di distanza dal precedente album doppio Star Birth / Star Death, realizzato con i fidi True Spirit, Hugo Race se ne esce con un nuovo disco, Dishee, stavolta realizzato in pressoché completa solitudine. Se Star Birth / Star Death era stato concepito in periodo pre-lockdown, pur venendo poi da quest’ultimo chiaramente e abbastanza pesantemente influenzato, Dishee è altrettanto chiaramente – e dichiaratamente – figlio dell’isolamento al quale il musicista di Melbourne è stato costretto nell’ultimo anno.

Recensione: Hugo Race – Dishee
Helixed – 2021

Per uno abituato a girare il mondo e a non stare più di qualche mese nello stesso posto, sempre attento a ciò che succede intorno a lui e a trarne spunti e ispirazione, l’immobilità costringe evidentemente a guardarsi dentro; e se dentro ci sono dei demoni, inevitabilmente vengono allo scoperto. Del resto questa operazione di introspezione era già abbastanza evidente nel disco precedente e qui raggiunge un livello ancor più elevato. Ovviamente non sappiamo se Hugo in questo periodo e per questo scopo sia ricorso ad aiuti esterni; né, altrettanto ovviamente, vogliamo saperlo. Ci sembra però molto più probabile, visto il risultato sonoro, che si sia “curato” da solo ricorrendo a tecniche di meditazione, magari di origine orientale, e al suo grande talento di musicista.

In Dishee, Hugo Race riversa molte delle sue esperienze precedenti

Cominciamo dal titolo: Dishee è una parola inventata derivante dal sanscrito e che ha a che fare con l’esorcizzare i demoni. Lo spunto gli è stato dato, a quanto afferma lui stesso, dall’acquisto di una chitarra costruita in Giappone nello stesso anno della sua nascita e nella quale ha “sentito” alcune di quelle “presenze oscure” che a volte i musicisti particolarmente sensibili avvertono in certi strumenti. Come se essi nascondessero certi particolari suoni nell’attesa che qualche mano amica riesca a tirarli fuori. Anche stavolta Hugo Race riesce a miscelare tutte le sue esperienze sonore, in parte riprendendo il discorso che il doppio disco precedente aveva lasciato in sospeso.

Un tocco orientale in più

Non mancano sostanziosi echi del suo tipico blues lisergico e del sound dei Dirtmusic – specialmente nell’ultima versione con la presenza di Murat Ertel – ma sono forti anche quelli della musica orientale, specialmente in iAmUr e in Akaal, il pezzo più lungo dei cinque che compongono il disco (oltre 15 minuti) e in cui l’atmosfera “orientale” è acuita dai gong suonati da Virginia Alexander (unica presenza “esterna”). Il suono “speciale” della nuova chitarra giapponese è sottoposto ad ogni genere di trattamenti elettronici; gli stessi ai quali viene sottoposta anche la voce di Hugo nei rari inserti cantati, tanto che è spesso difficile anche comprenderne le parole.

L’effetto globale, a dispetto delle differenze anche sostanziose tra un brano e l’altro, è quello di un unico e continuo mantra teso ad allontanare da se – e magari ad esorcizzare e sconfiggere definitivamente – quei demoni che l’introspezione ha portato allo scoperto. Ormai parecchi anni fa un altro grande e sottovalutato musicista, Sergio Endrigo, cantava: “La solitudine che tu mi hai regalato / io la coltivo come un fiore”. Certamente Hugo Race ha ben coltivato la sua e gli auguriamo che quel fiore sia sbocciato completamente.

Hugo Race – Dishee
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“Giovane” ultrasessantenne, ha ascoltato e ascolta un po' di tutto: dalla polifonia medievale all'heavy metal passando per molto jazz, col risultato di non intendersi di nulla! Ultimamente si dedica soprattutto alla scoperta di talenti relativamente misconosciuti.

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