Dodicesimo album per gli Eels del signor E.

Non è un gran momento per i musicisti di mezza età del circuito alternativo. Nel caso di Jack White, Josh T. Pearson e Colin Meloy (The Decemberists) il problema attuale è essenzialmente uno. Si sono addentrati in mondi nuovi senza guida o con la guida del mondo sbagliato. Mark Oliver Everett, in arte E e unico vero componente degli Eels, forse perché un po’ più attempato dei colleghi citati, sembra invece alle prese con il problema contrario. Nonostante piccole variazioni ambientali, The Deconstruction è sin troppo un disco degli Eels, così come lo erano stati i precedenti Wonderful, Glorious e The Cautionary Tales Of Mark Olver Everett.
Gli Eels come caposaldi dell’alt-rock
Questo non è necessariamente un problema, visto che Everett e gli Eels sono ormai un pilastro dell’alt-rock e lo stesso discorso fatto per lui si applica anche a personaggi assai in forma della generazione precedente tipo Tom Waits, Joan Baez, John Prine. Stavolta E sceglie come co-produttori i modernisti Koool G Murder e P-Boo e gioca con un’elettronica povera ma simpatica, sample e interventi orchestrali strambi ma efficaci. I temi restano quelli dell’ex ragazzo di buona e complicata famiglia alle prese con perenni problemi di varia salute da superare e un “mondo ormai uscito di zucca”. Nel frattempo dà un contributo positivo un nuovo amore (terzo matrimonio in vista?).
Sono i temi che hanno caratterizzato buona parte di quello che potremmo definire rock d’essai a partire da metà anni ’90. Un improbabile genere, tanto coinvolgente quanto a forte rischio autocommiserativo, che vede in Micah P. Hinson, Sun Kil Moon e Grandaddy altri esponenti di spicco.
The Deconstruction parte bene, ma poi…
Il guaio di The Deconstruction è un altro: prima illude e poi delude. La terna di canzoni che lo apre è eccezionale. Incalzante la title-track, minaccciosa (nonostante un improbabile shoobi-doobi-du centrale) Bone Dry, struggente nella sua saggenza pop Premonition: “Ho avuto una premozione/ Tutto andrà alla perfezione/ Puoi uccidere o essere ucciso/ Ma il sole splenderà”.
Dopo questi fuochi d’artificio – con colori da aurore boreali – il disco si rabbuia fra canzoni che sbocciano belle e poi non si schiudono (Rusty Pipes), procedono senza guizzi (Sweet Scorched Earth), arrancano lungo il sentiero della soul ballad (Be Hurt) o si adagiano sul rockettino risaputo (il singolo Today Is The Day).
Potrebbe essere necessario qualche ulteriore ascolto per attingere a piene mani al balsamico dolore che che già rappresentava il prodotto di punta della farmacopea Eels. Giusto per il beneficio del dubbio, e per quell’inizio così emozionante, il voto supera di un pochino la sufficienza. Chi possegga l’edizione in doppio 10” in vinile giallo aggiunga pure due decimi di punto.
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