Greg Dulli prova la strada solista con Random Desire.
Quando il leader di una band pubblica un disco a suo nome, perdipiù a relativamente poca distanza dall’ultimo disco del gruppo, può venire abbastanza naturale pensare che abbia sentito il bisogno di seguire in qualche modo un percorso diverso da quello portato avanti con la band.
In effetti ci sembra che questa ultima fatica solista di Greg Dulli, Random Desire, confermi l’ipotesi. In Spades richiamava i tempi d’oro della band in alcuni brani, primo fra tutti Arabian Heights. Ma altri, come ad esempio Toy Automatic, si allargavano fino ad assumere un tono quasi epico che finiva con l’essere una delle dimensioni caratterizzanti del disco. Qui sembra proprio di essere tornati per molti versi ai tempi di Gentlemen: superfluo aggiungere che la cosa, trattandosi di un gran disco, non ci dispiace affatto.
Non mancano i richiami ai migliori Afghan Whigs
Di Gentlemen ritroviamo quasi interamente – in pezzi come Pantomima e The Tide – certe atmosfere angosciose e angoscianti. Intro chitarristiche che spesso più che veri e propri riff sono ripetizioni ossessive di un stessa nota (Pantomima).
Esordi di piano che cominciano “dolci” per diventare martellanti e unirsi a chitarre altrettanto “monotone” (The Tide,). Non inganni la presenza di brani dalla “cifra” musicale più “soft” e in cui fa capolino una strumentazione insolita per Dulli, come un triangolo in Marry Me, un violino in A Ghost o una sommessa tromba e perfino un’arpa in Slow Pan. L’atmosfera complessiva del disco rimanda comunque, sostanzialmente, a quella sorta di inno/manifesto dell’angoscia metropolitana che era il brano di apertura di Gentlemen, If I Were Going, col suo riff ossessivo e ossessionante, anche se con ritmi più lenti e apparentemente addolciti.
La scrittura perfettamente compiuta di Greg Dulli brilla in Random Desire
Alla sua prima prova solista Dulli mostra una scrittura sempre più matura sotto tutti i punti di vista e una immutata volontà di fare i conti con i suoi “demoni”. In questo pare di sentire più di una consonanza, anche musicalmente, con l’ultimo Nick Cave, anche a causa di orchestrazioni più complesse di quelle tipiche degli Afghan Whigs (ad esempio Scorpio o It Falls Apart). Ovviamente con le dovute differenze, anche e soprattutto dal punto di vista “vocale”. Ma forse non è un caso che in questo disco si senta meno del solito il ben noto “falsetto” di Dulli: l’introspezione richiede toni più “cupi” e il falsetto viene fuori solo nei momenti in cui il dolore preme per uscire fuori. Magari per essere esorcizzato.
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