Natalie London e Taylor Plecity all’esordio come Hey, King!
Con questo disco, e dietro questo insolito moniker, fanno il loro esordio sulla scena musicale due fanciulle bionde e assai graziose – dote non richiesta per fare buona musica, ma che non guasta – stanziate in California. Natalie London oltre che polistrumentista è anche l’autrice dei brani, Taylor Plecity si incarica delle percussioni e divide con lei le parti vocali. Per produrre il loro disco d’esordio, Hey, King!, si è scomodato nientemeno che Ben Harper, ma non aspettatevi qualcosa di simile ai dischi a cui quest’ultimo ci ha abituato: qui siamo su latitudini abbastanza diverse. E questo torna, a nostro parere, a tutto merito del produttore, capace di mettere esperienza, talento e gusto nella confezione del prodotto senza imprimervi marchi troppo personali.
Molti richiami nobili nella musica di Hey, King!
Undici canzoni fra le quali spicca senza dubbio il brano d’esordio, Beautiful: inizio con un semplice quanto martellante riff di chitarra, per proseguire con un cantato scandito che richiama perfino il David Bowie di Heroes e sfociare infine in un ritmo e in una costruzione melodica che ci hanno ricordato molte cose dei migliori Pretenders. Anche la successiva Road Rage è costruita intorno a un ricorrente riff chitarristico quasi mascherato da linea di basso e sorretta da percussioni robuste.
Morning è una dolce e minimale love song che alterna nell’accompagnamento il piano alla chitarra acustica, con qualche nient’affatto invadente intervento degli archi, ed esalta l’impasto delle due voci. Half Alive e la successiva Walk si muovono su coordinate molto simili, ma nell’andamento ritmico e armonico ricordano vagamente certi brani del loro produttore, anche se non si ha affatto l’idea che questo sia dovuto all’invadenza di quest’ultimo in studio di registrazione. In Walk fanno capolino anche un funzionale stacco di tromba e una voce maschile in sottofondo che somiglia proprio a quella di Ben Harper. Purtroppo non è stato possibile reperire in rete notizie sui credits e quindi non possiamo confermare l’impressione.
L’influenza dei Pretenders
Don’t Let Me Get Away è senz’altro uno dei punti più alti del disco, una rock ballad con strumentazione sobria e in cui la voce di Natalie London “sporca” finalmente un po’ il suo timbro, a volte fin troppo argentino e pulito: che pure, intendiamoci, non ci dispiace affatto. Con Get Up, meno di tre minuti che si vorrebbe si prolungassero almeno un po’, si torna ad un pezzo in puro stile Pretenders, ovviamente rivisitato e cucito su misura su due voci che sanno intersecarsi benissimo, come del resto avviene nella successiva Sorry. Sing Me To Sleep tiene fede al suo titolo presentandosi come una sorta di dolce lullaby giocata su un accompagnamento molto discreto – anche qui fa capolino in sordina una tromba– e sul rincorrersi delle voci. Gli ultimi due brani, Lucky e Holy, mostrano la capacità delle ragazze di giocare con le armonizzazioni e con i cambi di ritmo che le porta a rifuggire costantemente dalla monotonia e dalla ripetitività.
Un esordio riuscito
In sostanza il disco si presenta tanto variato quanto ancorato ad un suo ben delineato filo conduttore, a dimostrazione di una già più che discreta maturità nel songwriting: sia dal punto di vista dei testi sia da quello musicale, dove tutte le influenze – qualcuno ha parlato di Arcade Fire e Sufjan Stevens, fra gli altri – appaiono ben digerite e messe a frutto. Ben Harper produce, come detto, con “discrezione” e le due fanciulle mostrano, come ulteriore punto di forza, una capacità di amalgamare le proprie voci – più squillante e nitida quella di Natalie, più tendente ad un registro appena più grave quella di Taylor – non comune. Le aspettiamo, magari fra un po’, alla seconda prova: l’esordio ci è sembrato più che buono.
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