Crawler: gli IDLES provano vie diverse
Gli IDLES avevano davvero spaccato con Joy As An Act of Resistance, loro secondo album datato 2018: granitico, vital-furibondo e socialmente conscio. Ovvero, il miglior punk odierno. Il consenso era stato generale e l’anno scorso Ultra Mono avrebbe dovuto essere la definitiva consacrazione. Non è andata così bene: a tratti il disco risultava caricaturale nel suo furore taurino, inclusa la voce del frontman Joe Talbot. Poi c’è stata la polemica con gli Sleaford Mods che avevano accusato gli OZIOSI di fighettismo finto proletario e finto-antagonista. E bisogna ammettere che il disco degli SM arrivato a inizio 2021, Spare Ribs, aveva surclassato Ultra Mono per rabbiosa creatività.
I dubbi prima dell’ascolto di Crawler
Anche stavolta c’era dunque molta attesa, ma nel caso di Crawler (Partisan) si trattava di un’attesa vagamente timorosa di una definitiva caduta nello stereotipo del Braccio di Ferro anti-tutto. Invece la partenza stupisce in positivo: su un fondale elettronico MT 420 RR dipana una melodia struggente che cresce d’intensità fino a spezzettarsi in un mantra dissonante e desolato. Sembra di sentire il miglior Mark Lanegan e non è poco. Un attimo dopo The Wheel riporta invece alla tipica maniera IDLES, ovvero andatura serrata e voce sbraitante.
Gli IDLES fra vecchio…
I primi due brani di Crawler sono emblematici dell’intero lavoro, intrigante dove sceglie vie sinuose e insolite, risaputo nelle sue tirate a 200 all’ora lungo autostrade adrenaliniche troppo simili fra loro. E stanca un po’ anche la voce di Talbot nella sua versione più strozzata, disarticolata e, volendo, velleitaria. In questa seconda dimensione, che potremmo definire ultra-IDLES, entrano la declamatoria The New Sensation e la quasi metallica Stockholm Syndrome che fanno immaginare headbanging clamorosi dal vivo (sempre ammesso che…). Più efficace è la title-track, posta quasi al centro dell’album ad illustrarne il tema-cardine, ovvero la tossicodipendenza per come se l’è vissuta Talbot. E se talvolta si è accusato il nostro di retorica verbale, bisogna ammettere che questo suo distico dedicato ai momenti difficili della disintossicazione esprime tutto in poche parole: “Dio Cristo, sto benissimo/ Disse il bugiardo davanti alla congregazione”. Prese una per una sono canzoni efficaci, ma l’effetto d’insieme affatica l’ascolto e non sorprende più come agli esordi.
…e nuovo
Sorprendono invece When The Lights Come On, dai toni spettrali alla David Thomas (dopo Lanegan un altro punto di riferimento alto e oscuro) e Car Crash che, con parecchia elettronica, prova a essere sia solenne che stridente. Anche Progress sfoggia un’elettronica desolata e un canto finalmente senza eccessi: straniante e commossa è il momento più insolito dell’album. Ancora migliore è The Beachland Ballroom che evoca esattamente quello che dice il titolo: una sala da ballo grande e vuota vicino alla spiaggia come simbolo di un trauma da superare, di un difficile inizio di rinascita. Il gruppo la definisce “canzone soul” e più meno ci siamo.
La conclusiva The End (stessa idea dei Doors dell’opera prima) quasi trova la quadratura del cerchio fra vecchio e nuovo: la musica è epica, possente e Talbot deborda appena appena nel cantare una frase tratta dal diario di Lev Trotskij: “Nonostante tutto la vita è meravigliosa” (subito prima il cantante ci aggiunge un “God Damn” che non sembrerebbe nel registro verbale del celebre rivoluzionario, ma fa il suo effetto).
E domani cosa faranno gli IDLES?
Come già detto, sono gli elementi che a suo tempo hanno fatto prendere il volo agli IDLES che paiono ora appesantirli. Al tempo stesso la tifoseria più accanita non potrebbe mai prescindere dal brutalismo (come da titolo dell’opera prima) del quintetto di Bristol. Un bel dilemma che, forse, il quinto disco proverà a risolvere. Magari gli Sleaford Mods potrebbero dare qualche consiglio.
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