Afro Futuristic Dreams: già dal titolo un manifesto programmatico per Idris Ackamoor.
Idris Ackamoor, statunitense classe 1951, ha formato i suoi Pyramids nei primi anni Settanta sotto l’egida di Cecil Taylor, ma con una produzione discografica limitata e venduta soltanto durante i numerosi show. Poi, con gli anni duemila, il ritorno in grande stile grazie al contratto con la Strut, che ha appena pubblicato un cofanetto con le prime introvabili incisioni della band. Afro Futuristic Dreams è il quarto lavoro che esce per l’etichetta inglese. Il titolo ci indirizza inequivocabilmente verso la musica che l’ensemble guidato da Ackamoor ci propone: un’eccitante miscela di afrobeat, spiritual jazz, funk, blues, psichedelia. Da buon polistrumentista, Ackamoor oltre a cantare suona i sax, l’organo, il piano, la keytar e le percussioni e si fa accompagnare da un nutrito gruppo di musicisti, fra cui la violinista e cantante Sandra Poindexter, oltre a un quartetto d’archi e a un coro.
Il trascinante e poliedrico Idris Ackamoor
È una musica ricca, energica e trascinante in cui le influenze africane sono evidenti a cominciare dalla title track che apre il disco e che grazie alla chitarra di Bobby Cobb, col suo andamento circolare e ipnotico tipico del blues del deserto, ci ricollega alla lezione del maliano Ali Farka Touré: ottoni, flauto, percussioni arricchiscono il suono accentuandone la matrice africana. Il successivo Thank You God, lungo 13 minuti, è un’invocazione alla divinità, il coro canta i vari nomi di dio mentre violoncello, arpa, sax, piano improvvisano in un’atmosfera tipica dello spiritual jazz alla Alice Coltrane, prima che la scena venga presa dal solo di sax alto e dalla voce solista della Poindexter, punto di forza del brano i continui dialoghi fra strumenti e voci. È col funk irrequieto e i ritmi afrobeat di Police Dem che l’atmosfera si surriscalda: le voci dei cantanti lanciano infuocati strali contro le violenze e il razzismo della polizia lungo la tradizione del grande Fela Kuti.
Afro Futuristic Dreams: un viaggio che si fa suono
Oltre alle citate ci sono altre sei splendide tracce che rappresentano un viaggio profondo dentro l’anima afroamericana e la ricerca e valorizzazione delle proprie radici. Qui la musica è anche rituale e incontro comunitario; non a caso i concerti di Ackamoor iniziano fra il pubblico per annullare la netta separazione fra palco e platea, per ricreare l’atmosfera vissuta nei villaggi africani. Un’atmosfera che ritroviamo anche fra i solchi del disco dove si alternano momenti più meditativi e psichedelici ad altri più ritmati e fisici, ma sempre con una grande forza comunicativa.
Ackamoor ha dichiarato che “le composizioni di questo album rendono omaggio all’attuale movimento afrofuturistico che ha abbracciato gli scrittori di fantascienza Octavia Butler e Samuel R. Delany, il musicista Sun Ra e il mio lavoro con The Pyramids”. Questo lo lega a quanto di più innovativo si sta manifestando nella musica africana odierna, ma anche ai lavori di Shabaka Hutchings e lo rende estremamente vitale e originale in questa sorprendente seconda giovinezza che sta vivendo insieme alla sua band.
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