Iosonouncane e IRA: un progetto “enorme”.
Parte il primo pezzo di IRA (Numero 1 / Trovarobato) e si cerca di capire le parole. Francese? Inglese? Spagnolo? Qualcos’altro ancora? Le lingue si incrociano, si scambiano, si smembrano e riaggregano con effetto spiazzante. Poi ci si lascia prendere dal flusso e si apprezza l’effetto. E che effetto… Diciassette pezzi, quasi due ore di musica. D’altronde erano sei anni che Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, doveva dare un seguito a Die. E adesso si capisce perché ci ha messo così tanto.
In realtà il disco non è lungo, è enorme. E di una bellezza che sgomenta. Non c’è davvero un momento di staticità; il rischio paventato prima dell’ascolto – la fatica che per forza deve affiorare qua e là – non esiste. Al suo posto addirittura accenni di sindrome di Stendhal musicale: si cerca di afferrare tutto e non si riesce, anche perché ci sono momenti incredibili che durano 30 secondi e fuggono via.
Iosonouncane – IRA e un’inquieta fratellanza sonica
Tomtomrock ha sempre considerato il progetto Iosonouncane una delle poche cose di respiro internazionale che l’Italia musicale ha prodotto in anni recenti e oggi Incani supera persino il concetto di internazionalità inventandosi una sorta di nuova musica cosmica, quasi 50 anni dopo i tedeschi visionari. Ha esagerato, dirà qualcuno, ma un progetto simile non può funzionare senza esagerazione. O è così o non è. Quanto ai possibili referenti, sono molti e molto diversi fra loro: Radiohead, Swans, Can, Godspeed You! Black Emperor, 0 anche cose più tenui come Sufjan Stevens o Bon Iver. Ma anche qui si tratta di suggestioni che durano un momento, subito superate da altre.
La prima parte è caratterizzata da una espressività perturbante; a volte prevale una ritmica motorik, altre volte si accendono luci mediorientali, altre ancora la dimensione è quella di musica per immagini tra Murnau e Lynch. Un muro del suono che è persino riduttivo definire onirico o allucinato. Nuit interrompe il flusso ritmico sotto forma di canzone piena di struggimento e di sogno, con voci che vanno, vengono, si fondono con gli strumenti.
Prison può essere giudicata claustrofobica (a prescindere dal titolo) oppure avvolgente e porta a chiedersi quale sia la valenza di questa musica. Fa stare bene o fa stare male? La risposta è che si tratta di musica comunque vitale, per quanto in modo a volte minaccioso. Ad allentare la tensione provvedono pezzi come Horizon e soprattutto Piel, nostalgica tipo spiaggia quando tolgono gli ombrelloni. Niran è ampia e solenne tanto quanto Soldiers è melodica, dopodiché l’attenzione resta viva sino al termine, sollecitata dalla potenza dei pezzi, in particolare Hajar, così come dai loro caleidoscopici dettagli. Oppure dai toni pacificati della conclusiva Cri.
IRA va oltre la musica da Covid
Ormai si ascrive tutto al Covid-19, anche le rare cose belle che ci capitano. Qualcuno dice che IRA sia legato emotivamente all’idea di lockdown. Data la lunga durata della sua elaborazione è quasi certo che le origini del progetto precorrano l’onnipresenza pandemica. In ogni caso il lavoro ha uno scopo più ampio rispetto all’ormai quasi proverbiale descrizione dell’angoscia e dell’isolamento. Vede già oltre l’inverno del contagio e forse prevede che non sarà una gran primavera.
IRA è diversissimo da Die, così come questo si era nettamente allontanato da La Macarena su Roma. Ormai quella di Iosonouncane non è più musica italiana, anche se l’etichetta è la rediviva Numero Uno, a cui risulta spontaneo associare un nome turbo-nazionale quale Lucio Battisti. Un paradosso affascinante, come affascinante, a dispetto della sua temibilità, è questo disco.
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