Ritorno estivo per Jamie T: The Theory Of Whatever.
Continua la carriera tutta inglese di Jamie T, segreto britannico ben conservato e pressoché sconosciuto al resto del mondo, arrivato con The Theory Of Whatever al quinto disco. In Inghilterra invece è davvero tutta un’altra musica; basta vedere il suo live all’ultimo Glastonbury per rendersene conto. Per far uscire The Theory Of Whatever, poi, Jamie T sceglie anche agosto, un mese in cui il mercato è pressoché fermo e anche noi molto accaldati e lenti, dunque arriviamo a parlarne con grave ritardo.
15 anni di carriera non sempre facili
Sono passati 15 anni dall’esordio Panic Prevention, un titolo sintomatico di ciò che sarebbe stata la carriera di Jamie T, costellata di incertezze personali, di attacchi d’ansia, di paura del palcoscenico: anche se, ancora a Glasto, ha dichiarato che ormai non gliene fotte più niente. Va avanti per la sua strada, con il suo stile, che al solito mescola le influenze disparate emerse dal Regno Unito negli ultimi decenni. Tracce di punk, di brit-pop, hip-hop stile The Street, un pizzico di Elvis Costello, al servizio di quadretti di vita nei testi sempre una spanna sopra la media.
Jamie T continua a cantare l’Inghilterra in The Theory Of Whatever
The Theory Of Whatever non è diverso. Brani sui tre minuti in media , produzione dell’amico Hugo White, ex chitarrista dei rimpianti Maccabees. Il disco parte bene con 90s Cars e soprattutto The Old Style Raiders, si sviluppa con l’oscura Keying Lamborghinis, piccolo gioiello con beats e pianoforte, nella quale ci parla di “Chelsea girls … oligarch houses, fresh paint and disdain”. Con Sabre Tooth tornano le chitarre affilate per un brano che dovrebbe piacere ai fan degli Strokes. A Million & One New Ways To Die (per nostalgici dei primissimi Arctic Monkeys) dovrebbe invece divenire un pezzo fisso nel repertorio del nostro, trascinante e perfetta per scatenare un mosh pit. Funziona anche la sperimentazione di The Terror Of Lambeth Love, già così promettente dal titolo.
Non tutto è perfetto in The Theory Of Whatever così come nella carriera di Jamie T. Una media di un disco ogni tre anni, con lo iato maggiore prima di questo (ma c’è stato il covid), insomma una buona continuità e buoni riscontri. Molti artisti più celebrati non sono arrivati a questo punto; molti artisti partiti bene sono spariti dalla scena o quasi: pensiamo a Jake Bugg, tanto per citare un nome relativamente giovane. The Theory Of Whatever, pur non essendo forse il disco migliore di Jamie Alexander Treays, è comunque di ottima qualità e soprattutto mostra un artista che dal primo disco in poi ha saputo trovare uno stile personale, riuscendo a variarlo pur restando sé stesso, riconoscibilissimo. Un vero cantore del British Hell, come si intitola una delle tracce del disco, e teorico del whatever nella migliore tradizione del pop UK.
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