: Johnny Cash – At The Carousel Ballroom

Johnny Cash incontra gli hippies At The Carousel Ballroom.

Ho ricevuto un regalo. Inaspettato perché non è ancora Natale e neppure il mio compleanno.

Prima sorpresa: il doppio album, live di Johnny Cash @ The Carousel Ballroom,  24 aprile 1968 e uscito il 29 ottobre per Legacy Recordings, grazie al lavoro di Stanley Owsley Foundation e John Carter Cash. L’ennesima trovata per ingannare gli appassionati tardivi, come mia mamma che mi ha sottratto il live a  Folsom prison  per più restituirlo?

Seconda sorpresa: no, non è così. Questo non è il disco che non aggiunge niente, ma è davvero il live che ancora mancava, per come viene fuori, fresco e spontaneo, che pare di esser lì a Haight Asbury, dove  Market street incrocia Van Ness, in quel piccolo club di San Francisco da tremila posti, riempito per un terzo da una  audience che non è quella abituale di Cash, e che anche per questo lo rende qualcosa di unico.

Quell’anno, si sa, è stato per Johnny Cash denso di eventi, sia dal punto di vista personale che professionale. Mentre gli Stati Uniti e il mondo intero affrontavano omicidi, abdicazioni presidenziali, proteste per il Vietnam e battaglie per i diritti civili, l’uomo in nero, vinta, per il momento, la sua dipendenza dalle pillole, sposa finalmente June Carter e registra due live colossali, Folsom Prison, uscito proprio la settimana del Carousel, come precisa lo stesso Cash introducendo Cocaine Blues, il primo pezzo dell’album, e  St. Quentin uscito per la precisione a inizio 1969.

Arriva l’Orso

Che vi fosse spazio per qualcos’altro allo stesso livello, risultava impensabile, se non fosse che la registrazione e il concerto portano l’impronta del club e soprattutto del  suo tecnico del suono e gestore, Owsley “Bear” Stanley, produttore di droga e ingegnere del suono, come riporta con precisione il necrologio sul Guardian alla sua morte per incidente stradale nel 2011. Bear, discendente di una borghesissima famiglia del Kentucky, scampato a una carriera  militare e riparato in California, oltre a rifornire di LSD tutta la Bay area, maniaco del suono quanto delle droghe,  ci ha lasciato i suoi quaderni sonici, una raccolta di registrazioni pubblicata solo in piccolissima parte, e conservata con cura dalla Fondazione che porta il suo nome.

Presented by the Owsley Stanley Foundation

Ottava uscita fra i  Sonic journal e secondo al Carousel, dopo Merry Go Round, il live di Tim Buckley, il concerto di Cash, l’ultimo con i Tennessee Three nella formazione originale ( il grande Luther Perkins morirà prima del live a St. Quentin), ci introduce in  quell’atmosfera che solo una leggenda che registra una leggenda può riprodurre.

E davvero pare di stare lì, con Johnny che si rivolge al pubblico, scherzoso come suo solito, ma anche più timido e meno “confortable” che non fra le sbarre di Folsom, quasi che lui ormai 36enne, dovesse per certi versi farsi accettare da questi giovani che erano bambini quando alla radio già passavano i suoi successi.

E anche June, introducendo il suo medley, sembra sentire il bisogno e il dovere di presentarsi, di ricordare che non è solo la piccola moglie del Tall Lover Man (altro pezzo presente nel disco che June stessa definisce un flop che ama cantare), ma che è nata cantando, con le sorelle, con la madre  Maybelle, con  Sara,  AP Carter, in quella famiglia, che,  anche se la Virginia è lontana anni luce da San Francisco, lei si porta sempre appresso nella sua voce da usignolo.

Senza forse avere consapevolezza che anche la psichedelia stava tornando alle radici (poco dopo arriverà Workingman’s Dead così come i progetti di Garcia con New Riders Of The Purple Sage e  David Grisman ) e anche a quel country che, come il blues, nessuno davvero  aveva mai smesso di ascoltare  e che aveva in Johnny Cash il suo più genuino storyteller.

 

Johnny Cash – At The Carousel Ballroom: da Ira Hayes a Dylan

Il risultato sono 28 brani, che, a parte i duetti e i classici come Ring Of Fire e I Walk The Line, deragliano dal binario della setlist consueta di quel periodo: penso a The Ballad of Ira Hayes, brano di Peter La Farge, cantastorie nativo americano, contenuto nelll’album Bitter Tears o  Old Apache Squaw da Songs Of Our Soil.

O ai bellissimi omaggi a Bob Dylan: il primo, Dont’ Think Twice, It’all Right tratto da quel The Freewheelin’ che, Cash, come racconta nella sua biografia, ascoltava su un giradischi portatile dietro le quinte,  prima e dopo ogni concerto. E il secondo, una delle prime versioni live di One Too Many Mornings, che sarà poi registrata nelle sessions di Nashville Skyline nel febbraio successivo senza però apparire nell’album.

La cura maniacale del suono di Bear rende questo uno dei dischi live più intimi e sinceri  e nella voce di Cash si sente tutto l’entusiasmo, l’amore per il pubblico e per la musica, la sintonia con la band di cui lui, pur con la sua immensa personalità, è il quarto uomo. Il suono è a volte incerto, a volte non proprio in sintonia, ma trasmette tutta la fragilità e assieme la forza di un uomo che si sta reinventando, che non pensa tanto agli errori fatti ma a come ne è venuto fuori, in quell’anno che egli stesso definì il più bello dei suoi 36 e che, ascoltando quest’album, ci sembrerà di aver vissuto un po’anche  noi.

Johnny Cash – At The Carousel Ballroom
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Fieramente classe '68, nata a Firenze lo stesso giorno di Syd Barrett, Celentano e Paolo Conte, non ne eredito le doti musicali. Cerco di colmare il gap ascoltando musica secondo l'istinto e l'estro del momento. Gruppi del cuore: Clash e Cash.

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