Tim Buckley - Merry-Go-Round at the CarouselOwsley Stanely Foundation - 2021

Merry-Go-Round At The Carousel: Tim Buckley dal vivo, giugno 1968

Con Merry-Go-Round At The Carousel  (Owsley Stanely Foundation) sono nove i titoli live  apparsi dopo la morte di Tim Buckley. Vale a dire tanti quanti furono gli album che il musicista californiano pubblicò in vita. Speculazioni commerciali su un nome a lungo semi-dimenticato e ritornato interessante anche grazie all’entrata in scena del figlio Jeff, pure lui prematuramente scomparso?  In realtà no.

Il Tim Buckley dal vivo era una sorta di fratello diverso rispetto a quello di studio. Amava espandere  i pezzi portandoli lungo  vie nuove cercate sul momento. Lo facevano in molti a quell’epoca e con risultati talora psico-velleitari. Buckley invece applicava al processo una dialettica di matrice jazz in cui autocontrollo e briglie sciolte agivano fianco a fianco. Sotto questo punto di vista Merry-Go-Round At The Carousel è uno dei suoi lavori più emblematici. Prima di procedere con le spiegazioni un inciso importante.

Inciso 1: I Bear’s Sonic Journals

L’album fa parte di una serie di registrazioni, i Bear’s Sonic Journals,  proveniente dall’archivio sonoro di Owsley “Bear” Stanley, oggi curato da una fondazione a lui intitolata. Si tratta di 1300 bobine (per un totale di 80 artisti) oggi a rischio di scomparsa per dissoluzione chimica, una sorta di foresta primordiale del rock che si può contribuire a salvare al costo di 400 dollari a bobina. E ora un altro inciso.

Inciso 2: Chi era Owsley “Bear” Stanley?

Rampollo di una famiglia importante (incluso un nonno governatore del Kentucky), Augustus Owsley Stanley III fu uno dei personaggi centrali della San Francisco alternativa negli anni ’60 e ’70. Nel suo laboratorio produceva fantastiche quantità di LSD  e, nel tempo libero dalle attività di piccolo chimico (e conseguenti arresti), si occupava dei suoni dal vivo dei Grateful Dead.  Se il gruppo di Jerry Garcia diventò così monumentale in concerto il merito fu anche suo. A dispetto di un’immagine inevitabilmente da sballatone, Owsley  era un tipo metodico che registrava tutti i concerti di cui si occupava come fonico. Non solo quelli dei Dead, dunque, ed eccoci tornati a Tim Buckley che “Bear” immortala in un modo curioso: ovvero il basso sul  canale destro, mentre voce e tutti gli altri strumenti occupano il sinistro. L’effetto ha un suo fascino, anche se c’è da immaginare che il pubblico del Ballroom sistemato a destra non sia stato troppo contento dell’idea.

Tim Buckley, 15 e 16 giugno 1968 al Carousel Ballroom di San Francisco

In quelle due San Franciscan Nights Buckley è accompagnato da John Miller al basso, David Friedman al vibrafono e il fido Carter “C.C.” Collins alle percussioni. Non può quindi contare su un pilastro della sua architettura sonora, ovvero la chitarra (ma anche il piano elettrico) di Lee Underwood. Eppure l’assenza non si fa sentire, anzi, persino più che altrove si percepisce un’idea di flusso, un continuum di idee e dialoghi strumentali con rarissimi passaggi a vuoto. La voce è un tripudio di ottave e timbri diversi, ma questo lo si dava già per scontato.

Il repertorio di Merry-Go-Round At The Carousel

Il tradizionale Wayfarin’ Stranger è epico come si conviene e avvolgenti suonano le due versioni di un altro classico dei concerti, Buzzin’ Fly. Ma il cuore del lavoro sta nelle due ‘suite’ (una sola accreditata come tale, però) di circa 24 minuti ciascuna. La Strange Feelin’ Suite si apre e si chiude con l’omonimo brano destinato a comparire nove mesi dopo su Happy Sad per sfumare nei due passaggi più meditativi di quell’album: una delle sezioni di Love From Room 109 At The Higlhander e Sing A Song For You. Poi arriva la sorpresa sotto forma di Merry Go-Round, brano antirazzista di Fred Neil interpolato da una revisione del tradizionale Where Did You Sleep Last Night? (sì, quello che poi rifaranno i Nirvana unplugged). Rispetto all’originale Buckley inserisce nuove parti di testo, accelera appena l’andatura e, soprattutto, rende l’insieme oscuro, ipnotico, inquietante.

Persino più suggestiva è l’altra ‘suite’, tutta composta di titoli mai apparsi sui dischi di studio. I Don’t Need It To Rain, cavallo di battaglia dei concerti, è una sorta di mantra dolente che sfocia nella mai ascoltata prima Blues, Love (*), magnifico e torrenziale brano fra blues e gospel simile a Freedom di Richie Havens (che però arriverà a Woodstock un anno dopo). Da qui le cose si acquietano e intristiscono con l’autobiografica The Father Song (composta per un oscuro film dell’epoca)  su cui s’innesta lo struggente frammento The Lonely Life, anch’esso del tutto inedito.

L’essenza di Tim Buckley

La musica ascoltata in questo disco dimostra soprattutto una cosa: Buckley poteva essere pirotecnico come cantante e assetato di ritmo come compositore, ma la sua grandezza stava nel fondere tutto questo con una componente meditativa, malinconica: “E ora si vive la vita solitaria/ Quei rompicapo che portano il tuo amore/ Lontano, tanto lontano da me”. È come se già qui si stesse preparando a partire per gli spazi siderali lo Starsailor coraggioso e destinato al fallimento di soli due anni dopo.

(*) Il titolo è stato scelto durante l’ascolto dei nastri da Larry Beckett che di Buckley fu paroliere e amico.  

Tim Buckley - Merry-Go-Round At The Carousel
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Nello scorso secolo e in parte di questo ha collaborato con Rockerilla, Musica!, XL e Mucchio Selvaggio. Ha tradotto per Giunti i testi di Nick Cave, Nick Drake, Tom Waits, U2 e altri. E' stato autore di monografie dedicate a Oasis, PJ Harvey e Cranberries e del volume "Folk inglese e musica celtica". In epoca più recente ha curato con John Vignola la riedizione in cd degli album di Rino Gaetano e ha scritto saggi su calcio e musica rock. E' presidente della giuria del Premio Piero Ciampi. Il resto se lo è dimenticato.

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