Kurt Vile e il ‘difficile nono album’ (Watch My Moves)
Nono album questo (Watch My Moves) per Kurt Vile; nove dischi iniziano a non essere poi così pochi (per dire il nono album di Neil Young era American Stars ‘n Bars, disco che il giovane Vile avrà sicuramente mandato a memoria), eppure il piccolo fiore hippy, completamente sbocciato ai tempi di Walkin on a Pretty Daze (anno di grazia 2013), pare in qualche modo aver interrotto la sua eterna fioritura e il giovane elfo di Filadelfia pare aver momentaneamente smarrito la strada per continuare a stupire i suoi ascoltatori.
Niente di drammatico intendiamoci, il disco (pubblicato dalla Verve) è sicuramente più che gradevole e dimostra ancora una volta la dimestichezza di Vile con le melodie gommose e allungate, le svisate chitarristiche intrise del sapore agrodolce della miglior psichedelia; il tutto al servizio di un talento comunque straordinario. Quello che ci pare però manchi è il colpo di coda capace di farti sobbalzare, il giro armonico che ti toglie il fiato, la trovata sonora che non ti aspetti e che regala quei meravigliosi atti di pura beatitudine e gioia.
Affiora qui e là un po’ di stanchezza e un po’ di maniera, una vera e propria maledizione per un artista così vivo e così proiettato nel futuro, tanto è vero che più volte nel corso dell’ascolto si ritrovano veri e propri marchi di fabbrica dell’artista della Pennsylvania. Nulla di grave, per carità, quando il “tuo” suono e le “tue” sonorità sono al servizio di una forte e reale ispirazione; se non è così, e ci pare che in questo episodio sia proprio così, allora i “tuoi” segni distintivi diventano vuoti e fastidiosi cliché.
(Watch My Moves) canzone per canzone
Il disco si apre con un’inedita marcetta pianistica (Goin in a Plane Today), un honky-tonk allegro e brioso, ma si torna immediatamente alle sognanti e dilatate sonorità tipiche della artista, con lunghi e articolati arpeggi di chitarra a sostenere un impianto melodico, comunque affascinante, anche se un po’ troppo autoreferenziale.
In alcuni casi si coglie nel segno (il blues sedato di Mount Airy Hill, il riff profondo di Hey Like a Child, gli intriganti giri chitarristici di Say the Word), ma il più delle volte il risultato è un semplice e vuoto rigirarsi su se stesso di melodie tutto sommato banali (la lunga e alla fin fine noiosa Like Exploding Stones, l’innocua Cool Water, il riempitivo di Kurt Runner).
Un’opera tutto sommato interlocutoria quindi; una minor durata avrebbe forse giovato alla compattezza complessiva perché un’ora e un quarto di sonorità dolci e sognanti, ma anche parecchio ripetitive, alla fine non è un gran bel sentire e annoia parecchio.
Dispiace che il talento di Vile sia rimasto questa volta imprigionato nei suoi stessi canoni estetici; il peccato è comunque veniale e lo aspettiamo alla prossima prova con estrema fiducia.
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