I Lankum sono i Radiohead del folk?
Speriamo che i Lankum non leggano mai questa recensione, vista la banalità appena scritta. E’ vero tuttavia che la loro musica mostra un’intensità dolente, a volte diventa dolorosa, proprio come accadeva ai Radiohead nei loro momenti migliori. Volendo ci sarebbe, come altro termine di paragone con Yorke e compagni, una serietà a rischio di seriosità.
The Livelong Day, ovvero l’oscurità necessaria
The Livelong Day – terzo album del gruppo dublinese – evita tale rischio grazie all’onestà del suo approccio. Se questa musica è oscura lo è per necessità e non per posa. E non è solo una questione legata ai mala tempora attuali. I Lankum raccontano storie che dimostrano come in epoche passate ci si divertisse meno, molto meno, di ora.
Il primo pezzo spiega tutto. Violino, concertina, chitarra, harmonium rendono arcana quella che era la scanzonata The Wild Rover, resa celebre da Dubliners, Pogues e persino Stiff Little Fingers. L’ultimo verso trasforma questo inno alla dissipatezza in un dolente atto di autoaccusa. Il “vagabondo scatenato” diventa schiavo della propria colpa, personggio emblematico al pari dell’Ebreo errante o del Vecchio marinaio di Coleridge. Quali prodigi si riescono a compiere con una cover quando si è ispirati ma anche analitici!
La successiva The Young People sembra quasi un anti-climax con il suo attacco sottotraccia da canzone alt-folk. Poi cresce con modalità circolare fino a diventare un inno avvolgente e coinvolgente. Anche qui l’attitudine si mantiene allegra: “Quando la gente giovane danza/ Non danza per sempre/ E’ scritto sulla sabbia/ Con la più leggera delle piume”. Più avanti Hunting The Wren va a cercare il disagio nella storia irlandese del XIX secolo, raccontando delle Curragh Wrens, una comunità di donne emarginate dalla società (madri nubili, alcoliste, ex prostitute, disadattate) che vivevano in malsani rifugi di fortuna.
La vitalità nonostante tutto dei Lankum
Tutti i brani di The Livelong Day è all’insegna del male o del malissimo di vivere; persino lo strumentale The Bear Creek ha un che di apocalittico. Eppure, fatta eccezione per The Dark Eyed Gypsy (vicina a quella seriosità di cui si diceva) il disco sfoggia una vitalissima energia, una nitida tensione interiore. Il merito è forse da attribuire alla dialettica fra le due anime del gruppo: Radie Peat e Cormac Dermody crescono musicalmente in ambito tradizionale, mentre i fratelli Ian e Daragh Lynch provengono dalla scena folk-punk dublinese. Sarebbe a dire l’acqua santa e il diavolo, ma si sa che nella musica irlandese i due elementi non sono così opposti.
Detto che il produttore John “Spud” Murphy è bravissimo nell’enfatizzare la livida luce dei suoni, ecco che The Livelong Day, insieme ad altre uscite recenti (Red River Dialect e Richard Dawson), è ulteriore conferma della costante significanza della musica folk. E chi associa il folk alle chitarrine pling-pling farebbe bene a ricredersi.
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