Moses Sumney compie un salto in avanti con græ: Part 1.

Se bisogna riconoscere una qualità a Moses Sumney, ventinovenne musicista californiano, è sicuramente quella di pensare in grande: per Aromanticism – il debutto del 2017 incensato dalla critica, meno dal pubblico – dichiarava di aver preso spunto dal mito del Simposio di Platone. Per questo progetto in due parti, græ: Part 1, la cui seconda uscita è prevista per il 15 maggio, ha dichiarato di voler rivendicare lo spazio ideale tra il bianco e il nero, la greyness, come metafora tra gli estremi: “È il vuoto. È il nulla. E il nulla, per me, non è solo un’assenza; è la sua stessa presenza”.
Un artista sospeso fra culture diverse
Senza scomodare Sartre e per tornare a un ambito meno filosofico, Sumney sembra prendere spunto culturalmente da questo suo essere sospeso tra Africa e Stati Uniti (a dieci anni è tornato con i genitori in Ghana dove è rimasto fino ai venti): “Quando sono in America, sono l’africano in America; quando sono in Africa sono un americano in Africa. Quindi il rapporto con un’identità nazionale è intrinsecamente fratturato”. Musicalmente questa apolidia si traduce nella veemente rivendicazione di non voler essere etichettato come un artista R&B, bensì come un artista che propone una fusione di soul, jazz, folk e indie rock sperimentale. Non saremo noi a smentirlo; ma è pur vero che se le sue radici sono inevitabilmente black.
Moses Sumney – græ: Part 1: un disco di sperimentazioni
Impossibile non pensare al rhythm and blues dell’Atlantic con le note del basso di Thundercat che aprono Cut Me (il brano scelto per il debutto televisivo nel Late Show di Stephen Colbert) o al falsetto di Marvin Gaye per In Bloom.
Poi arriva Virile a scombinare le certezze, brano che inizia con un ah ah ah che sembra citare quello di Oh Superman (del brano di Laurie Anderson, Sumney ha fatto una splendida cover nel 2015) e in cui la fisicità esibita nel video si scontra con un testo che definisce gli stereotipi della maschilità: The virility fades / You’ve got the wrong guy / You wanna slip right in / Amp up the masculine / You’ve got the wrong idea, son / Dear son / We pick our own prisons.
Colouour echeggia splendidamente il minimalismo di Steve Reich mentre il delicato arpeggio di chitarra di Polly sostiene un testo che prova a dirimere la questione della poligamia. Ma la sorpresa vera è una cover ultraterrena di From Gagarin’s Point of View degli E.S.T., il trio jazz svedese dello scomparso Esbjörn Svensson. Trasformata in Gagarin, riporta la grandeur di Sumney alla sua giusta collocazione: I wish I could dedicate my life / My life to something bigger / Something bigger than me. Aspettiamo la seconda parte del disco per capire se ha realizzato il suo desiderio; ma chi ben comincia… e di sicuro Moses Sumney è sulla buona strada.
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