La difficile ottava prova di Norah Jones: Pick Me Up Off The Floor.
Sono già passati 18 anni dal folgorante esordio di Norah Jones, quel Come Away With Me che veramente ha portato migliaia di fan ammaliati dalla stupefacente miscela di pop, jazz e grande musica americana, in volo insieme all’allora ventitreenne figlia di Ravi Shankar.

Ora la piccola/grande Norah, di anni ne ha quarantadue e in questa sua ottava prova, Pick Me Up Off The Floor, ci regala l’ennesimo sfoggio di grande, a tratti grandissima classe. Con la sua voce di miele, un pianismo ritmico e raffinato, arrangiamenti curati e misurati, in un miracoloso equilibrio tra pop e jazz (nientre country questa volta, a differenza delle prove più recenti) la Jones sfodera un altro colpo, regalandoci un disco che non stanca mai.
Sotto l’eleganza, poco
Tutto bene dunque? In realtà no, perché il disco è molto piacevole ma sostanzialmente “innocuo”, manca del tutto una qualche scintilla in grado di portare un disco di questo tipo un gradino al di sopra dell’ordinarietà. Pare che la musicista sia ormai inconsapevole vittima di un proprio cliché fatto di canzoni eleganti, piacevolissime all’ascolto, in grado di regalare un momentaneo sollievo (non cosa da poco, intendiamoci), ma che poi scivolano via leggere e anonime così come sono arrivate. La sensazione è che la Jones cerchi di dare il meglio di se stessa, offrendoci un pugno di composizioni delicate e raffinate, ma che non riesca mai veramente a scalfire una superficie fatta di un’eleganza sempre più fine a se stessa, che pare ingabbiare l’enorme talento dell’artista. Mancano insomma quei pezzi, in grado di farti sgranare gli occhi e che ti rimangono in testa per giorni; ed è un peccato perché il disco è suonato meravigliosamente (splendido il lavoro della batteria di Brian Blade) e le canzoni sono comunque tutte assai piacevoli.
Norah Jones, Pick Me Up Off The Floor e Jeff Tweedy
Anche la collaborazione con quel geniaccio di Jeff Tweedy non è sfruttata fino in fondo. Heaven Above, posta in chiusura, è trasognata e leggera, mentre I’m Alive è probabilmente il punto più alto dell’album: il delicato pianoforte della Jones si fonde con la chitarra acustica del musicista di Chicago, in una ballad dondolante e deliziosa (uno di quei gioiellini che Tweedy ormai può scrivere anche dormendo), impreziosita da uno sghembo assolo di elettrica del leader dei Wilco. Però, rimangono due episodi, slegati dal resto, dove l’eleganza e il gusto della Jones non sfruttano comunque fino in fondo le possibilità offerte dal talento irregolare e poliedrico di Tweedy.
Provaci Norah!
Come detto, le canzoni sono anche piacevoli e l’ascolto è in grado di regalare diverse gioie: l’iniziale How I Weep, con i suoi contrappunti di viole e violoncelli, la blueseggiante Flame Twin, impreziosita dall’organo di Peter Remm, la deliziosa soul ballad To Live, con il suo bel tappeto di fiati, la già citata I’m Alive. Disco bello quindi, però alla fine la sensazione è di rimanere con nulla in mano e poco nel cuore. E questa cosa fa particolarmente rabbia per noi che amiamo la Jones, conosciamo il suo talento e sappiamo quanta musica celestiale sia ancora in grado di regalarci.
Forse serve un po’ più di coraggio, un po’ più di voglia di rischiare, di non fare l’ennesimo disco che piace a tutti ma che poi è destinato a rimanere lì a prendere polvere. Oggi come oggi, con la sostanziale fine del mercato, non ha più senso fare dischi bellini e innocui; vendere si vende comunque poco, tanto vale rischiare e mettere eleganza e gusto al servizio di qualcosa di più vero ed originale. Provaci Norah, sei brava, bravissima: lo puoi fare.
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